Una messa in scena decisamente complessa, e non priva di spunti interessanti, quella realizzata da Henning Brockhaus per il Rigoletto inserito nel cartellone del Verdi Festival di Parma. L'opera, che è tornata sul palcoscenico del Teatro Regio dopo sette anni dall'ultimo allestimento, è stata trasfigurata attraverso un "teatro della mente" concretato dal regista tramite un mondo immaginario, abitato da clown e prostitute, in una dimensione forzata, distorta, che rifletteva amplificandola la condizione del protagonista, segnato da una difformità interiore, morale, prima ancora che fisica. Tanti i rimandi simbolici posti in essere dalle scene e dai costumi firmati rispettivamente da Ezio e Patricia Toffolutti, perfettamente in linea con le scelte registiche, che hanno eletto il rosso quale colore dominate, che intrideva il palcoscenico fino a rapprendersi in un violaceo cupo e buio nei momenti di maggior drammaticità, come quello della maledizione di Monterone, o nel quadro finale. Anche l'uso delle maschere, indossate in gran quantità, andava nella direzione di una simbologia del doppio, che riconduceva la corte di Mantova a quell'ipocrisia che, in questa lettura, nutriva e tratteggiava a tinte forti il carattere del protagonista. Un Rigoletto a due facce, dunque, piccolo borghese quando si reca a far visita alla figlia, e spietato buffone quando abita le stanze del Duca di Mantova. In questo senso si può leggere il cambio d'abito operato in scena grazie all'aiuto del nano che, assieme ad altri due pagliacci, rappresentava il suo alter ego, il lato oscuro ed assassino che trovava il suo simbolo concreto in Sparafucile. Anche il sentimento per la figlia Gilda, più che amore paterno, si rivelava come sentimento possessivo ed ossessivo. Una lettura complessa, insomma, che non ha nascosto risvolti dalla decifrazione problematica, e che ha coinvolto appieno anche i cantanti in scena, a partire dalla sessa Gilda - prima bambina segregata in una stanza delle bambole sospesa, ricavata in un sipario a mezz'aria, poi donna che, reduce dalla stanza del Duca, ritrova nella morte l'amore ideale - interpretata con buona efficacia da una Patrizia Ciofi vocalmente ben preparata. Oppure il Duca di Mantova di Tito Beltrán impegnato in varie peripezie acrobatiche attorno ad un cavallo (forse un rimando al simbolo di lussuria del Minotauro) risolte con impegno anche nei momenti più delicati da una voce, se non corposa, sostanzialmente agile. Ed infine Sergei Murzaev nel ruolo del titolo, che ha dimostrato un'accettabile capacità interpretativa, messa a dura prova da una situazione contingente certo non distesa. Infatti, a tutti i cantanti, come al giovane direttore Riccardo Frizza che ha guidato l'Orchestra del Centenario e il Coro del Verdi Festival (preparato da Martino Faggiani) in maniera rispettosa e, tutto sommato, apprezzabile, va riconosciuto l'onore al merito di aver resistito con palese professionalità ad un pubblico di certo non condiscendente, e diviso letteralmente in due opposte fazioni, con il loggione che dissentiva e rumoreggiava per gran parte dell'opera, e la platea che applaudiva. Alla fine gli applausi e le sonore critiche piovute dall'alto hanno fatto a gara, fino ad unirsi nei consensi indirizzati alla Gilda di Patrizia Ciofi. Dissensi confermati, comunque, per la regia, forse troppo ardita per il pubblico di Parma, complici le rare nudità e i rimandi sessuali espliciti. Per la cronaca, alcune critiche sono state indirizzate anche al direttore artistico del Verdi Festival, in maniera di certo poco elegante.
Interpreti: Beltrán, Murzaev, Ciofi, Guerzoni, Moretto, Gira, Zese.
Regia: Henning Brockaus
Scene: Ezio Toffolutti
Costumi: Patrizia Toffolutti
Coreografo: Juan De Torres
Orchestra: Orchestra del Centenario
Direttore: Riccardo Frizza
Coro: Coro del Festival Verdi
Maestro Coro: Martino Faggiani