Riccardo Muti ha abituato il pubblico a una sua personale visione del melodramma verdiano, messa a punto con determinazione nel corso degli anni: altissima per molti, discutibile per altri, ma in ogni caso sempre curata nella sua coerenza. La Traviata della Scala, attraverso le sue successive messe a punto a partire dal 1990 ha costituito un capitolo importante, forse persino il più importante, di questo percorso; mettere a confronto questa rappresentata nel nuovo Teatro degli Arcimboldi con le precedenti edizioni comunica l'impressione di un deciso punto di fermata. La lettura tesa fino all'eccesso, con le nervature della scrittura orchestrale sempre esposte in piena luce, talvolta anche a discapito delle linee di canto eppure sempre finalizzata alla costruzione di una coesa e violenta visione drammatica c'è ancora; ciò che oggi sembra mancare e quell'equilibrio tra tale visione e la reale tenuta del palcoscenico. In sala, ovunque ci si metta, è per esempio innegabile che l'orchestra suoni troppo forte; nel rilevarlo si passa inevitabilmente a parlare di quel delicato e sfuggente argomento che è l'acustica delle sale. Certo il teatro è nuovo; certo, sarà migliorato, e gli esperti ci dicono che già è stato molto ritoccato. Tuttavia, la percezione dell'equilibrio acustico di una sala, nel momento in cui l'opera viene portata in scena, spetta anche al direttore d'orchestra. Non si suona in tutti gli ambienti nello stesso modo. Quei boati spaventosi delle percussioni nei punti di maggiore tensione, facevano pensare più alla tempesta del Rigoletto che agli acmi drammatici della Traviata, e a nessun direttore sarebbero altrove perdonati. Ma dicono che un problema di sala: è nuova, sarà migliorata. Nel frattempo non si perde occasione per disprezzare l'acustica della sala di Piazza della Scala: dicono che non si poteva più sopportare, che era ai limiti della decenza. Sarà, però lì le cose funzionavano: la bellezza e la cura del suono orchestrale era anche allora esibita fino all'esagerazione, ma l'equilibrio teneva. Per non dire dei diversi episodi di incomprensione tra palcoscenico e buca d'orchestra, in precedenza decisamente rari. L'impressione complessiva è stata quella di una continua e diffusa preoccupazione: la regia di Liliana Cavani, ormai immagine consueta della Traviata per il pubblico milanese, era resa illeggibile dallo sguardo fisso dei protagonisti al gesto del direttore; persino il coro era meno spigliato del solito nei movimenti. Forse più comprensibile la cosa poteva risultare nel caso del giovane Cesare Catani, che sostituiva un indisposto Marcelo Alvarez nella parte di Alfredo; ma la sua interpretazione è stata, pur nella correttezza complessiva, piuttosto priva di raffinatezza. C'era la febbrilità del personaggio, le accensioni inconsulte della linea vocale; c'erano le note, tutte, più o meno belle. Non c'era però la rifinitura del canto, la ricerca delle mezze voci, la volontà di scavare tra i suoni una psicologia più complessa per il proprio personaggio. Lo stesso discorso vale per Inva Mula: la voce spesso tendente allo stentoreo, appesantita da un vibrato non molto bello; i gesti un po' convenzionali, sia scenici sia vocali; un talvolta eccessivo portamento per l'emissione degli acuti: tutto ha contribuito a rendere non memorabile la sua Violetta. Più sicuro e raffinato, ancora una volta, il Germont di Roberto Frontali, frutto di esperienza e sensibilità: non un mattatore, certo, ma comunque un valore sicuro in mezzo all'incertezza. Discreto il resto della compagnia, con la pregevole Annina di Tiziana Tramonti.
Interpreti: Catani, Mula, Frontali, Tramonti
Regia: Liliana Cavani (ripresa da Marina Bianchi)
Scene: Dante Ferretti
Costumi: Gabriella Pescucci
Coreografo: Mischa van Hoecke
Orchestra: Orchestra del Teatro alla Scala
Direttore: Riccardo Muti
Coro: Coro del Teatro alla Scala
Maestro Coro: Roberto Gabbiani