Eisejuaz fra due mondi 

All’Opernhaus di Zurigo la nuova opera di Beat Furrer tratta da un romando dell’argentina Sara Gallardo 

Das große Feuer (Foto Herwig Prammer)
Das große Feuer (Foto Herwig Prammer)
Recensione
classica
Zürich, Opernhaus
Das große Feuer 
23 Marzo 2025 - 11 Aprile 2025

Eisejuaz è un uomo diviso fra due mondi: quello delle sue radici indigene che lo legano agli spiriti invisibili della natura e quello della cultura cristiana che gli è stata imposta dai missionari venuti dall’Occidente con i quali è cresciuto per sfuggire alla fame. Lavora in una segheria ma sente le voci del legno. Fa il lavapiatti e avverte una manifestazione del divino nell’acqua che scende nello scarico con la voce del Signore che gli impone di salvare una vita umana. Come uno sciamano sente le voci degli spiriti della foresta ma crede nei valori del Dio cristiano. Si impone carità e sottomissione anche questo significa salvare Paqui, un uomo bianco razzista che non nasconde il disprezzo per lui e il suo popolo. Eisejuaz lo salva dal fango dove rischia di morire e se ne prende cura finché Paqui non lo tradisce spacciandosi per il Salvatore, sottraendogli la stima del suo popolo. Per lui Eisejuaz perde la moglie, perde la propria casa, recide le sue radici culturali ma il destino ha deciso che con Paqui il legame è ormai indissolubile e lo seguirà fino alla morte. 

Eisejuaz è il protagonista del romanzo omonimo pubblicato nel 1971 dell’argentina Sara Gallardo dal quale Thomas Stangl ha tratto il libretto in un bizzarro impasto di spagnolo e tedesco per Das große Feuer (Il grande incendio), l’opera numero nove di Beat Furrer  andata in scena all’Opernhaus di Zurigo. Raccontava una storia vera la Gallardo, di cui lei stessa era stata testimone durante un reportage nella foresta del Gran Chaco argentino. E da un articolo giornalistico, la vicenda umana di Eisejunaz, sciamano indigeno chaco allevato da missionari cristiani, diventa in seguito un romanzo dal contenuto politico sullo sfruttamento coloniale dell'Argentina e sull’alienazione culturale dei nativi di quelle regioni. Nella riduzione in libretto, il romanzo perde la sua carica politica (il potenziale tema ecologista è appena sfiorato e resta poco più di una suggestione fra tante) per trasformarsi in un monologo interiore del protagonista, che ripercorre le tappe del suo percorso esistenziale senza seguire un filo lineare. I fatti vissuti dal protagonista si intrecciano con le fantasie e il sogno senza una logica chiara e soprattutto senza quella dimensione magica che attraversa molta letteratura sudamericana capace di trasformare ogni storia minima in un apologo dal valore universale. 

Come già nella sua precedente opera, Beat Furrer torna sulla storia di una condizione umana di fronte a condizioni estreme, che sono una catastrofe ambientale in Violetter Schnee (Neve viola) e una catastrofe antropologica in Das große Feuer. Il linguaggio musicale, del tutto privo di ogni facile colore folkloristico, è complesso e nervoso e insiste molto sulle gamme estreme dello spettro sonoro quasi a manifestare quella divaricazione culturale ed esistenziale del protagonista Eisejuaz. Solidamente ancorato nella psiche del protagonista, Furrer compone e dirige sul podio di una concentratissima Philharmonia Zürich una partitura austera e implacabile, che ha molto di cerebrale e concede pochissimo alle ragioni di una facile spettacolarità, tranne in alcuni, rari momenti corali nei 120 minuti di durata senza intervalli. Interessante è soprattutto il lavoro sulle voci che, accanto al monologo interiore del protagonista, ottimamente interpretato da Leigh Melrose impegnato in una prova di estrema varietà espressiva (e assai più ampia degli altri ruoli maggiori, dal Paqui di Andrew Moore all’Aquella Muchacha di Sarah Aristidou, sostanzialmente privi di una identità davvero definita), vede impegnate le dodici voci dell’ensemble Cantando Admont, egregiamente istruite da Cordula Bürgi, a creare una ricca tavolozza di suoni, spesso sussurrati, che concorrono a definire paesaggi ambientali e mentali attraverso i quali si sviluppa la narrazione, quando non si prestano a coprire i numerosi ruoli minori da solisti. 

Quello concepito dallo scenografo Henrik Ahr è uno spazio unico racchiuso fra tre pareti materiche e passerelle sui tre lati che racchiudono un grande disco rotante sul quale agiscono i personaggi, tutti sempre in scena. La regia di Tatjana Gürbaca e Vivien Hohnholz evita i facili rimandi al presente ma non va molto oltre un generico schema di movimenti degli interpreti, aggiungendo qualche presenza simbolica (il ciclista che vola) e gesti rituali, che confondono più che chiarire la sostanza narrativa di una drammaturgia piuttosto asfittica sul piano dell’efficacia teatrale. A dare colore pensano soprattutto i costumi di stampo etnico ma con misura di Silke Willrett e l’elaborato disegno luci di Stefan Bolliger che scandiscono efficacemente i diversi snodi narrativi di un libretto frammentato in 41 brevi scene (19 nel primo atto e 22 nel secondo). 

Più interessante sulla carta che alla prova della scena, Das große Feuer sembra infiammare poco il pubblico zurighese, come testimoniano i numerosi posti vuoti in sala alla penultima recita. Il pubblico presente, comunque, riserva a tutti applausi convinti (e solo un isolato quanto sonoro “buh” dopo l’ultima nota, non si sa bene indirizzato a chi). 

 

 

 

 

 

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