Rivive all’Opera di Roma la Carmen di Renato Guttuso

La direzione di Wellber: vivace e brillante o troppo veloce e chiassosa?

Carmen (Foto Fabrizio Sansoni)
Carmen (Foto Fabrizio Sansoni)
Recensione
classica
Roma, Teatro dell’Opera
Carmen
21 Giugno 2025 - 28 Giugno 2025

Questa Carmen  inizia con un coup de thèâtre  ideato da Omer Meir Wellber. Si fa buio in sala, il pubblico attende in silenzio l’ingresso del direttore d’orchestra, ma lui entra senza farsi vedere e a sorpresa dà l’attacco all’orchestra: la musica esplode improvvisa, molto colorata e soprattutto molto rumorosa, come un fuoco d’artificio, e fa indubbiamente il suo effetto. Però l’orchestrazione di Bizet, colorata, vivace e - scusate se l’aggettivo è abusato quando si parla di cose francesi - elegante diventa un amalgama indistinto in cui i colori si confondono e perfino la melodia rischia di annegare. Dopo un paio di minuti un’ampia pausa e il tema del fato costringono Wellber a mettere fine a quest’inizio chiassoso. Ma è soltanto una parentesi. Presto il direttore ritorna al fortissimo e lo accoppia a tempi velocissimi. E va avanti così per il 90% dell’opera. 

È inevitabile che con dinamiche e tempi così estremi i rapporti tra le varie sezioni dell’orchestra e tra l’orchestra e le voci non siano ben calcolati e che si avverta spesso una leggera ma fastidiosa confusione: sappiamo per esperienza che l’orchestra del teatro saprebbe suonare molto meglio e quindi pensiamo che questo avvenga o perché non ha provato abbastanza o perché il direttore non si è curato affatto dei ‘dettagli’ e ha lasciato che solisti, coro e orchestra se la cavassero da soli per stare appresso ai i suoi tempi e alle sue dinamiche esagerate. Va riconosciuto che Wellber abbassa - ma solo un po’ - i toni durante le arie e i duetti, probabilmente perché altrimenti i fuochi d’artificio sarebbero scoppiati anche tra lui e i cantanti furibondi.

Si potrebbe pensare che dinamiche fortissime e tempi velocissimi assicurino sempre e comunque un bell’effetto teatrale. In parte è vero, ma presto subentra l’assuefazione e tutto appare uniformemente e piattamente forte e veloce. E le orecchie stesse reclamano qualche minuto di tregua. Una parte degli ascoltatori - il teatro era esaurito ma alcuni se ne sono andati prima della fine - non era di questa opinione e alla fine ha applaudito a lungo e calorosamente, perché Carmen  ha comunque una grande presa sul pubblico.

Pur senza grandi star, il cast assemblato dal Teatro dell’Opera era di ottimo livello. La protagonista era Gaëlle Arquez, l’unica francese in palcoscenico. Una cantante di classe, che ha saputo rendere senza volgarità sia la sensualità di Carmen sia - e questa è ancor più importante - il suo totale rifiuto delle convenzioni sociali e il suo desiderio di vivere la sua vita come preferisce, in piena libertà. Don José era il tenore messicano-americano Joshua Guerrero, che ha un’impostazione vocale tutt’altro che esemplare, con suoni ora troppo aperti e ora troppo indietro, ma con buone intenzioni interpretative. Il loro duetto del quarto atto è stato uno dei momenti migliori, forse il migliore, della serata. 

Erwin Schrott questa volta ha messo da parte il suo istrionismo e ha cantato Escamillo come sa fare, con disinvoltura ma anche con gusto e misura, insomma molto bene. Mariangela Sicilia sarebbe un’ideale Micaëla, lirica e delicata ma non una bambolina, però Wellber la costringe in vari momenti a forzare per passare il muro sonoro dell’orchestra. Questo è stato un problema ancora più grave per Meghan Picierno (Frasquita) e Anna Pennisi (Mercédès). Alessio Verna (Le Dancaïre), Blagoj Nacoski (Le Remendado), Nicolas Brooymans (Zuniga) e Matteo Torcaso (Moralès) completavano adeguatamente il cast.

Un motivo d’interesse di questa ripresa dell’opera di Bizet erano le scene i costumi ideati da Renato Guttuso per la Carmen  romana del 1970: le scene di allora non esistono più e sono state ricostruite, mentre nei magazzini del teatro sono conservati circa trecento costumi originali ma è stato comunque necessario ricostruirli. Ad apertura di sipario si riconosce immediatamente la mano di Guttuso: la scena rappresenta un paesino fatto di bianche casette cubiche, simile a quelli che si vedono in vari suoi quadri. Ma potrebbe essere un qualunque paesino spagnolo o italiano o greco che si affaccia sul Mediterraneo. La taverna di Lillas Pastia è situata in una caverna scavata nella roccia, che ricorda le Latomie. Poi i riferimenti alla Sicilia diventano più vaghi. Sono scene sobrie e senza fronzoli, piuttosto realistiche, che si tengono lontane dal pittoresco ad uso turistico. Quanto ai costumi, le donne in minigonna fanno chiaramente riferimento agli anni intorno al 1970, come la regia. Non ci sono documentazioni che possano permettere di ricostruire quella originale di Sandro Bolchi, quindi Fabio Ceresa ha ideato una regia totalmente nuova, che colloca l’opera di Bizet nel clima postsessantottino, tra slogan sui muri (“vietato vietare”), comportamenti maschilisti delle autorità (ufficiali e guardie) e rivendicazioni femministe delle giovani donne (gettano i loro reggiseni in un bidone e gli danno fuoco). Questo non è estraneo allo spirito di un’opera che ha per protagonista un personaggio ribelle come Carmen, che nel 1875 metteva in discussione la mentalità e i costumi della sua epoca. Ma le tante piccole trovate con cui Ceresa cerca di imprimere allo spettacolo un suo segno personale sono sovrabbondanti e spesso superflue.

 

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