Più Barenboim che Dante

Successo di Carmen alla Scala con alcune contestazioni alle regia

Recensione
classica
Teatro alla Scala Milano
George Bizet
07 Dicembre 2009
Barenboim ha infuso alla "Carmen" scaligera una sontuosa cupezza a tutta l'esecuzione, spesso con sonorità wagneriane. Anche se il quintetto del secondo atto gli è riuscito spiritoso e leggero. Esemplari il primo e il secondo intermezzo, per dolcezza e asprezza di timbri. L'orchestra scaligera al meglio del meglio. Buono il cast. Il debutto di Anita Rachvelishvili nei panni della protagonista è stata una felice sorpresa, ha voce calda, naturalmente potente, mai una forzatura. Se la cantante soffre di qualche carenza è nella recitazione. Ha certo impacci di suo, ma il più delle volte sono aggravati dalla gestualità richiesta (vano pretendere erotismo alzando la gonna al ginocchio). Il personaggio rimane così bloccato in una drammaticità statica, deprivata dei risvolti ironici e istrionici che formano l'ambiguità fondante della Carmencita. Al suo fianco Jonas Kaufmann, tenore dal bel timbro brunito, talvolta un po' ingolato, che ha dato credibilità e forza al suo don José. Autorevolmente torvo l'Escamillo di Erwin Schrott, bravissime e disinvolte Michèle Losier (Frasquita) e Adriana Kucerova (Mercedés). Sotto tono invece la Micaela di Adriana Damato, per volume e fraseggio. Uno dei protagonisti dell'opera è quasi del tutto mancante. La regia di Emma Dante, altra debuttante alla Scala che firma anche i costumi, è sovrabbondante di "segni" da decodificare. Chiara l'intenzione di rappresentare un generico Sud oppresso da religione e superstizioni, ma il continuo susseguirsi di controscene, talvolta affollatissime, costringono spesso l'azione principale in proscenio, ridotta a modi convenzionali. E' come se un "horror vacui" avesse guidato la messa in scena, col risultato che par di assistere a una "opéra-ballet" parallela, ora di non immediata decifrazione ora ridondante. Vedi i bambini in mutande sulle spalle dei soldati, che se ne liberano rinunciando alla propria fanciullezza, informandoci così sulla psicologia della truppa (e nulla sui contrabbandieri?). Oppure gli enigmatici carotoni verticali nel terzo atto, mutanti in cespugli e poi in un cimitero dove le prefiche nere depongono delle croci. Questo per commentare la profezia di morte del trio delle carte, che ne viene visivamente sopraffatto. La peggiore delle didascalie visionarie è però l'apparizione del letto con la madre di don José agonizzante (interpretata da una Micaela canuta che seguita a cantare). Da segnalare inoltre un tratto distintivo di Micaela ed Escamillo che compaiono sempre con un codazzo esplicativo. Lei accompagnata da un prete e una croce retta da due chierichetti, che nel primo atto tendono un siparietto di tulle per trasformarlo nell'agognato velo da sposa. Il torero invece seguìto da cinque bianche creature, tipo Madonne da Settimana Santa, che gli srotolano come credenziali due cartigli con dipinti dei cadaveri di toro. Tutta questa artificiosità non impedisce comunque situazioni di grande impatto visivo, come la rissa delle sigaraie e la violenta repressione, il tappeto circolare da Lillas Pastia che isola gli amanti dal mondo o la cupa sfilata dell'ultimo atto sotto il gigantesco turibolo. Le scene di Richard Peduzzi, coi suoi preferiti mattoni rosso scuro, si richiamano più all'archeologia industriale che a un'architettura del Sud, ma la loro essenzialità dà rigorosa eleganza a tutto l'allestimento. Prima dello spettacolo lunghi applausi al presidente Napolitano, alla fine applausi convinti al cast (con qualche buu per Adriana Damato) e al direttore con l'orchestra tutta schierata in palcoscenico. Ma insistite contestazioni a Emma Dante, non solo dal loggione. Tanto che Barenboim si è sentito in dovere di riapparire a braccetto con lei per difenderla.

Regia: Emma Dante

Direttore: Daniel Barenboim

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