Migrazioni a Reggio Emilia
Al Festival Aperto la prima dell'opera Haye: Le parole, la notte di Mauro Montalbetti
La nona edizione del Festival Aperto, organizzato dalla Fondazione I Teatri di Reggio Emilia, ha scelto quale titolo-guida “Dispositivi meravigliosi”, a evidenziare una sorta di contrapposizione tra la concreta razionalità del “dispositivo” e l’istintiva, aperta estemporaneità della “meraviglia”. Una specie di ossimoro in cui la creatività trova strade originali che, fino al 12 novembre, attraversano differenti linguaggi e generi espressivi abitando diversi luoghi della città emiliana.
Avviato dal jazz-blues di Gregory Porter lo scorso 15 settembre, il cartellone di quest’anno si snoda attraverso danza, musica contemporanea, performance e installazioni, offrendo un variegato compendio di appuntamenti tra i quali abbiamo seguito, venerdì scorso, la prima rappresentazione di Haye: Le parole, la notte, nuovo allestimento in prima assoluta, commissione e produzione della Fondazione I Teatri di Reggio Emilia / Festival Aperto, in collaborazione con IED Milano e Istituto Luce Cinecittà. Il lavoro è firmato per la parte musicale da Mauro Montalbetti, libretto di Alessandro Leogrande, mentre la regia e la cura degli interventi video sono di Alina Marazzi, quest’ultima impegnata in una tessitura narrativa per immagini – quelle proiettate sullo schermo e quelle plasticamente incarnate sul palcoscenico – che ha rappresentato il filo conduttore del lavoro. Un esempio di teatro musicale impegnato a proporci una riflessione parallela da un lato sull’attualità del dramma dei profughi e dall’altro sulla storia di migrazione che anche il nostro Paese ha vissuto non troppi decenni fa.
Il titolo dell’opera è un diretto rimando all’Africa, come evidenzia lo stesso Montalbetti: «in tigrino, lingua diffusa tra Etiopia ed Eritrea ‘Haye’ significa ‘Avanti’ e riassume in una parola la filosofia di sopravvivenza del migrante: andare sempre avanti, mai tornare indietro. Il tema dell’opera è infatti quello delle migrazioni,» fenomeno del nostro tempo «troppo spesso raccontato unicamente come tragico evento dai contemporanei mass media occidentali.» L’intento di Montalbetti è diverso: «L’opera intreccia più storie, attraverso una drammaturgia non lineare, con scatti temporali», incluso il nostro passato italiano di emigranti, «che cambia continuamente il punto di vista sul problema, scoprendone i lati più umani e poetici.»
Sul palcoscenico questa lettura prende forma attraverso il contrappunto di differenti elementi espressivi, a partire da quello audiovisivo che ha miscelato documentazioni dell’epoca delle migrazioni italiane: filmati e montaggi realizzati grazie alla collaborazione con l’Istituto Europeo di Design IED Milano che ha impegnato in questo progetto un gruppo di studenti del corso di video e sound design che hanno affiancato Alina Marazzi nella realizzazione dei supporti audiovisivi utilizzando materiale del fotografo Giulio Piscitelli, del repertorio storico dell'Archivio dell’Istituto Luce, di quello dell'Archivio audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico di Roma AAMOD. A questa linea narrativa per immagini ha fatto da contraltare la musica di Montalbetti, costruita con un intento espressivo che giustapponeva caratteri stilistici occidentali a vaghi rimandi a tradizioni musicali “altre”. Un dato riscontrato anche dalla compagine vocale chiamata a restituire una storia che – in estrema sintesi – nella cornice della rievocazione di un naufragio di migranti italiani, descriveva il rapporto tra la madre di uno scafista con una delle sue vittime, sopravvissuta (al contrario di lui) al mare, oltre che alle diverse violenze e sopraffazioni subite. Compagine che comprendeva nei ruoli principali Cristina Zavalloni, Yasmina (madre dello scafista) impegnata in una forte drammatizzazione del suo personaggio e vocalmente un poco affaticata, Elizangela Torricelli, la migrante Luam, e Gabriele Mari, lo scafista Karim, entrambi tratteggiati attraverso una cifra musicale di difficile decifrazione, con conseguente opacità della resa vocale. Completava l’elenco dei protagonisti l’attore Alessandro Albertin nei panni di un politico restituito attraverso un carattere retorico decisamente caricaturale.
I migranti italiani erano interpretati dagli otto componenti dello Zero Vocal Ensemble, gruppo palesemente affiatato che ha ben restituito le parti a loro assegnate, tra le più ispirate ed efficaci dell’opera cosi come quelle riservate ai bravi componenti del Quartetto Mirus, presenti a lato del palcoscenico come un ideale controcanto all’azione rappresentata. Completava il dato strumentale l'ottetto dell'Ensemble strumentale della Fondazione I Teatri diretto con precisa attenzione da Francesco Bossaglia. Alla fine applausi per tutti gli artisti impegnati da parte di un pubblico che non esauriva il Teatro Ariosto.
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