Violetta fuori dalla cornice

All’Arena di Verona, La Traviata con il riuscito allestimento di Hugo De Ana

La Traviata (Foto ENNEVI)
La Traviata (Foto ENNEVI)
Recensione
classica
Arena di Verona
La Traviata
27 Giugno 2025 - 02 Agosto 2025

All’Arena di Verona Opera Festival 2025 torna il felice allestimento della Traviata a cura di Hugo De Ana, che aveva inaugurato la stagione del 2011 in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Lo spettacolo si distingue e coinvolge ancora oggi per sobrietà, eleganza e pregnanza simbolica, nonché per l’accuratezza semantica (vera rarità di questi tempi) nei confronti del libretto di Francesco Maria Piave. 

Il vasto palcoscenico è occupato da imponenti cornici abbandonate al suolo, come gettate via dall’epoca stessa che le ha prodotte. Al loro interno – e talvolta anche all’esterno per ragioni simboliche (come quando la regia posiziona brillantemente Violetta sul bordo della grande cornice centrale all’inizio di Sempre libera) – si agitano le esistenze vuote e inerti della borghesia di fine Ottocento; un profluvio di tappeti, tele e arazzi lacerati e impolverati amplificano questa condizione. Pertanto, risulta intelligente l’idea di aprire lo spettacolo con la preparazione di un’asta (volta alla cessione degli arredi e degli averi della povera e malata traviata, inutili e malinconici correlativi oggettivi delle convenienze borghesi che si dissolveranno nel corso dell’opera): non solo una colta e piacevole citazione alla fonte originale dell’opera di Verdi (La Dame aux camélias di Dumas figlio iniziava proprio così), ma un intenso leitmotivvisivo che ritorna all’inizio del terzo atto, quando la casa di Violetta è ormai un freddo e lugubre deposito, come consumata dallo stesso morbo che annienta le membra della giovane donna. La cupa e catartica penombra che avvolge la scena e le tristi note del preludio consegnano un finale visivamente straziante, mentre l’eccellente lavoro sui costumi contribuisce a impostare un racconto sempre ricco di sottili e raffinati dettagli (lo vediamo, ad esempio, confrontando i diversi abiti che la protagonista veste e sveste a seconda di ciò che le accade, ugualmente in senso narrativo ed emotivo). Una regia estremamente intima che, tuttavia, non appare fuori contesto rispetto alla spettacolarità richiesta agli allestimenti areniani. De Ana, infatti, gestisce sapientemente anche i momenti più concitati, grazie alla direzione ordinata delle masse e alla ricerca di una sfarzosità sempre presente, ma mai eccessiva (altrettanto misurate e fini sono le coreografie di Leda Lojodice riprese da Michele Cosentino).

L’intimismo generale del comparto visivo è altrettanto vivido sul fronte musicale, già a partire dall’ottima prova di Gilda Fiume (chiamata a sostituire l’indisposta Nadine Sierra) nel ruolo di Violetta Valery. Il soprano campano si apprezza particolarmente per il timbro candido, quasi angelico, il controllo magistrale di un vibrato piacevole e mai smodato, l’intonazione spesso impeccabile (anche nei pianissimi più difficili, ben appoggiati sul fiato e dispiegati sempre con gusto e umiltà) e l’immacolato registro acuto. Il successo personale dell’artista in questa produzione è garantito anche dalla nettezza recitativa con cui impersona la cortigiana (struggente nel terzo atto, in particolare con la postura adottata per evidenziare il dolore fisico e sentimentale del personaggio) e dalla cesellatura di alcune esuberanze vocali e interpretative che spesso limitano il ruolo di Violetta (soprattutto nel contesto areniano) a mero elemento spettacolare, nell’alternanza troppo rigida e spasmodica tra lirismo e coloratura (si veda la volontà di non crogiolarsi in acuti – comunque eseguiti egregiamente – tenuti troppo a lungo solo per assicurarsi qualche applauso in più). Al suo fianco, Galeano Salas regala un’interpretazione di Alfredo Germont decisamente interessante: l’amante di Violetta non cede mai alla rabbia, alla disperazione e alla frustrazione, bensì sembra immerso in una condizione di perenne depressione e remissività, come se fosse cosciente fin dall’inizio del tragico esito della vicenda (lo si evince soprattutto dal modo rassegnato con cui intona l’arietta Ogni suo aver tal femmina). Vocalmente, il tenore messicano-americano convince per l’eccellente dizione, la buona emissione e la naturalezza dell’intonatissimo registro acuto (sfolgorante nella cabaletta Oh mio rimorso!... Oh infamia). Infine, Ludovic Tézier interpreta Giorgio Germont con la profonda esperienza e l’impeccabile tecnica per cui è noto: caratterizzato da uno strumento baritonale di invidiabile potenza e insensibile ai limiti acustici dell’arena, il cantante francese plasma un padre fragile e affranto, anche nei momenti di maggiore risolutezza, grazie alla delicatezza del legato e al nitore del fraseggio (straordinario nel sublime duetto con Violetta nel secondo atto e nell’aria Di Provenza il mare, il suol, uno dei suoi cavalli di battaglia). Chiude il cast la più che gradevole voce di Francesca Maionchi nel ruolo di Annina e quelle altrettanto adeguate di tutti gli altri membri di una compagine in generale ben assortita. Notevole e senza fronzoli anche la performance del coro (in particolare nel secondo atto), preparato dal bravo Roberto Gabbiani. 

La corretta prova dell’orchestra areniana (in cui spiccano gli archi e i legni) è diretta da Francesco Ommassini, che instaura un buon dialogo (eccetto in alcuni momenti del secondo atto) con il palcoscenico, adottando una direzione intimistica, dai tempi dilatati e da una toccante levità che insieme assicurano un esito commovente. 

Al termine della recita del 2 agosto (interrotta per pochi minuti a metà del secondo atto a causa di qualche goccia di pioggia), calorosi applausi per tutti da parte di un’arena quasi gremita.

 

 

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