Diario inglese 2 | La musica contemporanea oggi

Primo giorno allo Huddersfield Contemporary Music Festival

Recensione
classica
Difficile che il paesaggio del West Yorkshire tenga distanti da un certo senso di malinconia, ma il clima è ancora inaspettatamente clemente e certi colori autunnali degli alberi che scorgo dal finestrino del treno sono davvero pazzeschi.

Tra i luoghi più importanti per la musica contemporanea in Europa - il Festival è arrivato alla sua trentacinquesima edizione – Huddersfield è una cittadina che sta più o meno a metà strada tra Manchester e Leeds (così, se non geografica, almeno gli appassionati di calcio un’idea dei colori delle maglie se la fanno).

Il primo weekend del Festival ha il supporto del British Council ed è grazie alla loro encomiabile attività di supporto e promozione che mi ritrovo qui, in mezzo a molti altri musicisti, operatori, curatori, agenti, editori di ogni nazione d’Europa, in una condivisione di idee, di strategie, di traiettorie e di umanità davvero preziosa. Mi aspettano tre giornate davvero intense, con i concerti, gli incontri con i compositori, le performance e le conviviali reception che si succedono quasi senza tregua dalla mattina alla sera. Belle le sedi dei concerti, la Chiesa di Saint Paul, un vecchio impianto industriale che accoglie come un febbrile garage alcuni concerti, la Town Hall con il suo magnificente organo, ma anche sale più piccole e gli spazi dell’Università. Con una mossa che mi potrebbe precludere una ipotetica quanto piuttosto irrealistica carriera come sceneggiatore hollywoodiano, svelo da subito "l’assassino", o meglio anticipo qui una riflessione che sarebbe potuta essere conclusiva, ma che metto subito sul tavolo perché costituisce un fil rouge che attraversa molti dei concerti sentiti e che non vorrei trovarmi poi a ripetere noiosamente. Tra l’altro è una riflessione che abbiamo già fatto recentemente, in occasione della Biennale Musica e la cui "conferma" anche in un altro prestigioso Festival mi spinge a considerare piuttosto centrale: la sensazione è infatti che nell’ambito di molta musica "contemporanea" si sia oggi di fronte a un livello di sensibilità e tecnica esecutiva (da parte dei singoli strumentisti e degli ensemble) davvero altissimo, cui però non corrisponde un’altrettanto stellare livello di esiti compositivi.

Indecisa tra la crinolina sempre più stretta del mondo accademico e le tentazioni "a vita bassa" tecnico-espressive che provengono dai linguaggi di matrice popular (ma che essendo appunto popular sono per definizione convincenti e "veri" quando vissuti in piena adesione), ipnotizzata dalle ritualità del concerto, ma ansiosa di ridefinire il rapporto con i luoghi e gli ascoltatori, specie quelli più giovani, la scena contemporanea si trova così in bilico su una pericolosa quanto affascinante linea che separa il definitivo distacco dalle urgenze del mondo (e quindi dalla contemporaneità stessa, per quanto questo termine possa ancora avere un suo valore) dalla straordinaria potenzialità eversiva della creazione sonora.

Va dato atto a Graham McKenzie, lo scozzese vulcanico che dirige da qualche anni il Festival di Huddersfield, di aver messo insieme nel programma molti elementi non solo interessanti dal punto di vista espressivo, ma anche utili a questa riflessione. Ma procediamo con ordine: la prima sera il festival concede dapprima un bel ritratto al compositore irlandese Donnacha Donney, simpatico e spigliato nell’incontro di presentazione e co/direttore artistico dell’ottimo Crash Ensemble. La sua musica è un curioso mix di iterazioni minimaliste e suggestioni popolari irlandesi, di quelle che rischiano seriamente di avere un po’ di fortuna al di fuori del pubblico abituale (e la stanno avendo), anche se alla fine non mi convince del tutto, forse per un sottile autocompiacimento della struttura sonora.

La seconda parte della serata abbina il progetto Palimpsest di Kathy Hinde e Daniel Skoglund e il quartetto Spunk dell’artista in residenza per quest’anno, la vocalist norvegese Maja Ratkje. Due performance entrambe interessanti, la prima grazie alla bella intuizione di fare interagire dei sequencer in grafite con i segni sempre mutevoli tracciati dal vivo sul pavimento, la seconda per la navigata sensibilità del quartetto tutto femminile nell’ambito dell’improvvisazione elettroacustica.

Immagine rimossa.
Palimpsest

La stanchezza per la lunga giornata ogni tanto si fa sentire, ma le pulsazioni un po’ sghembe di Palimpsest non si dimenticano facilmente (nonostante la parte video a tratti un po’ ridondante) così come la vocalità aliena della musicista norvegese, che l’elettronica proietta dentro frammenti di specchio dai bagliori sempre cangianti.

Avere scelto la Ratkje come compositrice in residenza (e elemento centrale e ricorrente del Festival) è un segnale preciso che ci sembra molto significativo. L’improvvisazione delle Spunk – forse solo un po’ troppo lunga, ma questo si può dire di un buon ottanta percento delle performance di improvvisazione – restituisce forte il segnale e traccia una prima forte linea nel palmo della mano di questo weekend.

Immagine rimossa.
Spunk

[continua...]

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