Zuma Fest: music is love
Terza edizione per lo Zuma Fest, musiche coraggiose per un progetto totalmente autoprodotto
Terza edizione per Zuma nello spazio Cascinet a Milano, un festival totalmente autoprodotto in un'atmosfera libera e rilassata che lascia ben sperare in questi tempi democratici (?) e (poco) progressivi.
Tre giorni all'insegna della musica da questo e da altri mondi e di una declinazione della psichedelia in senso lato e dell'arte dell'incontro. Dieci concerti a partire dal primo pomeriggio, sotto un sole finalmente cocente, in un ambiente fuori dal tempo e dallo spazio, una sorta di zona temporaneamente autonoma o di comunità utopica realizzata, con un sold out a confermare la scelta azzeccata dell'organizzazione.
All'interno del fluviale programma della seconda giornata del festival, il sabato, diverse perle, a cominciare dal pianista Giovanni Di Domenico, di stanza a Bruxelles e con all'attivo collaborazioni prestigiose (Jim O'Rourke, Akira Sakata, Eiko Ishibashi). Sul palco sotto al fienile vanno in scena quaranta minuti di miracoloso equilibrio su un piano infinito: specchi, note ribattute, un minimalismo caldo e avvolgente, musica naturale come un respiro, cinematica, estatica ma affatto statica a dispetto della solo apparente immobilità. Fibrillazioni, geyser, movimenti celesti, vuoti siderali e pieni abissali, letteratura, architettura, cosmologia, psicologia, poesia.
È breve il tempo che resta.
Poi saremo scie luminosissime.
E quanta nostalgia avremo dell’umano.
Come ora ne abbiamo dell’infinità.
Ma non avremo le mani.
Non potremo fare carezze con le mani.
E nemmeno guance da sfiorare leggere.
Una nostalgia d’imperfetto
ci gonfierà i fotoni lucenti.
Sii dolce con me.
Maneggiami con cura.
Abbi la cautela dei cristalli con me e anche con te.[...]
Mariangela Gualtieri
Una musica che ha la grazia imprendibile di un miracolo e la delicatezza di un segreto; indicibile come un segreto e lirica come il volo di un uccello.
A seguire un altro grande live: Maistah Aphrica, una vera e propria all star band di musicisti dal Friuli Venezia Giulia, un ottetto che non lascia scampo: la parola d'ordine è ritmo, ritmo, ritmo; immaginatevi Fela Kuti nella Chicago eclettica del post rock più avventuroso piuttosto che nella repubblica di Kalakuta. Riff poderosi e sguscianti, mai prevedibili, cantabili eppure sempre graziati da un quid di lucida, euforica follia; cocciuti groove da un'Africa immaginaria e mastodontica, una festa per il corpo e per la testa. La sezione ritmica, rotolante e massiccia, non perde nemmeno una virgola mentre i tre fiati (sax alto, tromba e trombone) catapultano l'audience in una festa dispari e vagamente aliena, come una visione filtrata attraverso lenti optical e pedali fuzz del suono della madre terra nera, dove un giorno tutto cominciò. Ethio jazz, ruggini quasi hardcore, afrobeat rivisitato, svisate dub, strutture articolate ma mai verbose per un'ora balsamica e trascinante di Great Black (weird, powerful) Music. Il loro disco nuovo, dopo l'ottimo esordio autoprodotto di due anni fa, è in uscita per Black Sweat Records. Procuratevelo se volete ascoltare uno dei migliori gruppi italiani e non perdete l'occasione di seguirli dal vivo se capitano dalle vostre parti.
Cucoma Combo, dalla Romagna sono ottimi strumentisti in grado di spaziare agilmente tra porro colombiano, musica brasiliana e afrobeat; il loro set fa scatenare il foltissimo pubblico in danze liberatorie, pur sembrando po' troppo ammiccante in alcuni frangenti alle orecchie del sottoscritto. Karl Hector & The Malcouns, dalla Germania suonano come un ibrido tra kraut, Canterbury e un cosmo vagamente da cartolina forse a causa di un uso molto abbondante del delay sulla voce che affoga tutto in un'ovatta spacey. Immaginatevi una versione meno oscura e misteriosa di Heliocentrics e ci sarete molto vicini. Qualche buon momento, ma un'impressione di bella calligrafia che nemmeno gli stacchi alla Hatfield & The North sanno fugare. Nota di colore: la cantante, Marja Burchard, è la figlia di Christian Burchard, fondatore degli Embryo.
Totalmente dedita a un'impro informale e selvatica la performance di Famodou Don Moye (batterista di Art Ensemble of Chicago) con Hartmut Geerken (un personaggio la cui storia è da lucciconi per chi è interessato alle vicende della musica libera) e Dudù Kouaté. Una selva free tra storia, archeologia e futurologia: rispetto infinito per chi è sul palco ma l'impressione che resta è più quella di una performance che di un concerto vero e proprio.
Chiude la nostra lunga giornata il Tenore de Orgosolo, un quartetto vocale che porta al pubblico di Zuma (equamente suddiviso tra maturi nostalgici dei tempi che furono, quarantenni eclettici e giovani curiosi) la meraviglia antichissima del canto polifonico sardo. Letteralmente straordinario.
Resta prima di ogni altra cosa l'atmosfera davvero splendida, da happening, della serata, come una summer of love a due passi da Metanopoli con tutto il suo portato simbolico di ribellione pacifica al cinismo imperante, escapismo freak, utopia, rivoluzione gentile dal basso. Come cantava David Crosby nel capolavoro "If I Could Only Remember My Name": music is love.
Ci vediamo l'anno prossimo a Zuma.
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