Zuma Fest: music is love

Terza edizione per lo Zuma Fest, musiche coraggiose per un progetto totalmente autoprodotto

Zuma Fest
Foto di Cristian Ciccone
Recensione
oltre
Cascinet, Milano
Zuma Fest
01 Giugno 2019

Terza edizione per Zuma nello spazio Cascinet a Milano, un festival totalmente autoprodotto in un'atmosfera libera e rilassata che lascia ben sperare in questi tempi democratici (?) e (poco) progressivi.

Tre giorni all'insegna della musica da questo e da altri mondi e di una declinazione della psichedelia in senso lato e dell'arte dell'incontro. Dieci concerti a partire dal primo pomeriggio, sotto un sole finalmente cocente, in un ambiente fuori dal tempo e dallo spazio, una sorta di zona temporaneamente autonoma o di comunità utopica realizzata, con un sold out a confermare la scelta azzeccata dell'organizzazione.

All'interno del fluviale programma della seconda giornata del festival, il sabato, diverse perle, a cominciare dal pianista Giovanni Di Domenico, di stanza a Bruxelles e con all'attivo collaborazioni prestigiose (Jim O'Rourke, Akira Sakata, Eiko Ishibashi). Sul palco sotto al fienile vanno in scena quaranta minuti di miracoloso equilibrio su un piano infinito: specchi, note ribattute, un minimalismo caldo e avvolgente, musica naturale come un respiro, cinematica, estatica ma affatto statica a dispetto della solo apparente immobilità. Fibrillazioni, geyser, movimenti celesti, vuoti siderali e pieni abissali, letteratura, architettura, cosmologia, psicologia, poesia.

È breve il tempo che resta.

Poi saremo scie luminosissime.

E quanta nostalgia avremo dell’umano.

Come ora ne abbiamo dell’infinità.

Ma non avremo le mani.

Non potremo fare carezze con le mani.

E nemmeno guance da sfiorare leggere.

Una nostalgia d’imperfetto

ci gonfierà i fotoni lucenti.

Sii dolce con me.

Maneggiami con cura.

Abbi la cautela dei cristalli con me e anche con te.[...]

Mariangela Gualtieri

Una musica che ha la grazia imprendibile di un miracolo e la delicatezza di un segreto; indicibile come un segreto e lirica come il volo di un uccello.

A seguire un altro grande live: Maistah Aphrica, una vera e propria all star band di musicisti dal Friuli Venezia Giulia, un ottetto che non lascia scampo: la parola d'ordine è ritmo, ritmo, ritmo; immaginatevi Fela Kuti nella Chicago eclettica del post rock più avventuroso piuttosto che nella repubblica di Kalakuta. Riff poderosi e sguscianti, mai prevedibili, cantabili eppure sempre graziati da un quid di lucida, euforica follia; cocciuti groove da un'Africa immaginaria e mastodontica, una festa per il corpo e per la testa. La sezione ritmica, rotolante e massiccia, non perde nemmeno una virgola mentre i tre fiati (sax alto, tromba e trombone) catapultano l'audience in una festa dispari e vagamente aliena, come una visione filtrata attraverso lenti optical e pedali fuzz del suono della madre terra nera, dove un giorno tutto cominciò. Ethio jazz, ruggini quasi hardcore, afrobeat rivisitato, svisate dub, strutture articolate ma mai verbose per un'ora balsamica e trascinante di Great Black (weird, powerful) Music. Il loro disco nuovo, dopo l'ottimo esordio autoprodotto di due anni fa, è in uscita per Black Sweat Records. Procuratevelo se volete ascoltare uno dei migliori gruppi italiani e non perdete l'occasione di seguirli dal vivo se capitano dalle vostre parti.

Cucoma Combo, dalla Romagna sono ottimi strumentisti in grado di spaziare agilmente tra porro colombiano, musica brasiliana e afrobeat; il loro set fa scatenare il foltissimo pubblico in danze liberatorie, pur sembrando po' troppo ammiccante in alcuni frangenti alle orecchie del sottoscritto. Karl Hector & The Malcouns, dalla Germania suonano come un ibrido tra kraut, Canterbury e un cosmo vagamente da cartolina forse a causa di un uso molto abbondante del delay sulla voce che affoga tutto in un'ovatta spacey. Immaginatevi una versione meno oscura e misteriosa di Heliocentrics e ci sarete molto vicini. Qualche buon momento, ma un'impressione di bella calligrafia che nemmeno gli stacchi alla Hatfield & The North sanno fugare. Nota di colore: la cantante, Marja Burchard, è la figlia di Christian Burchard, fondatore degli Embryo.

Totalmente dedita a un'impro informale e selvatica la performance di Famodou Don Moye (batterista di Art Ensemble of Chicago) con Hartmut Geerken (un personaggio la cui storia è da lucciconi per chi è interessato alle vicende della musica libera) e Dudù Kouaté. Una selva free tra storia, archeologia e futurologia: rispetto infinito per chi è sul palco ma l'impressione che resta è più quella di una performance che di un concerto vero e proprio.

Chiude la nostra lunga giornata il Tenore de Orgosolo, un quartetto vocale che porta al pubblico di Zuma (equamente suddiviso tra maturi nostalgici dei tempi che furono, quarantenni eclettici e giovani curiosi) la meraviglia antichissima del canto polifonico sardo. Letteralmente straordinario.

Resta prima di ogni altra cosa l'atmosfera davvero splendida, da happening, della serata, come una summer of love a due passi da Metanopoli con tutto il suo portato simbolico di ribellione pacifica al cinismo imperante, escapismo freak, utopia, rivoluzione gentile dal basso. Come cantava David Crosby nel capolavoro "If I Could Only Remember My Name": music is love.

Ci vediamo l'anno prossimo a Zuma.

Zuma Fest
Foto di Cristian Ciccone

 

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