Jazz Is Dead e l'anima

Reportage a quattro mani da Jazz Is Dead 2025, fra minimalismo ballabile e bassi pericolosi

Tarta Relena Jazz is Dead (foto Fabiana Amato)
Tarta Relena (foto Fabiana Amato)
Recensione
oltre
Bunker, Torino
Jazz Is Dead 2025
31 Maggio 2025 - 02 Giugno 2025

(Jacopo Tomatis) Si sa, c’è troppa musica. La responsabilità di decidere come occupare quel poco tempo giornaliero che si ha per ascoltarla – tra una corsa al Nido e l’ennesima call di lavoro – non è materia da poco. Se poi ci si può giocare un bonus “serata fuori” solo una tantum (il problema di chi ha figli piccoli), la posta in palio diventa enorme. Posso io permettermi di sbagliare? Di finire ad ascoltare un concerto mediocre?

Il cappello introduttivo è per dire che Jazz Is Dead – di cui ci siamo spesso occupati su queste pagine, e che ha chiuso a Torino la sua ottava edizione – è uno di quei festival di cui ho imparato a fidarmi: di solito (è stato così anche quest’anno) propone in line-up un buon 30-40 percento di musica che già conosco e che mi interessa… ma è nel restante 70-30 (almeno, in quello che riesco a seguire) che confido quando esco di casa già trafelato e distrutto dal caldo (che, in questo weekend, è stato letale quanto i bassi di The Bug: vedi oltre).

Venerdì 31 maggio

Il venerdì si apre con The Necks, che appartengono alla prima categoria: ascoltato per la prima volta dal vivo grazie a Jazz Is Dead ormai qualche anno fa, il trio australiano fa sempre la stessa cosa, sempre diversa, e sempre benissimo.

– Leggi anche: In viaggio con The Necks

Quelle piccole fioriture di pianoforte (scale pentatoniche, riff ripetuti) che aprono il set possono ingannare: il minimalismo dei The Necks non ha nulla a che vedere con quel filone neoclassico alla Ludovico Einaudi (e dio grazie). Riprende piuttosto il minimalismo “storico”, con la sua idea – semplice, portante, illuminante – di «musica come processo graduale»: Steve Reich la paragonava all’esperienza di mettere i piedi sulla battigia dell’oceano per osservare le onde che poco a poco li seppelliscono nella sabbia. Solo che in The Necks la logica della ripetizione è filtrata da una sensibilità più complessa e in fondo groovy, radicata nel jazz e in altre musiche da ballare. Si ondeggia, più che altro, contemplando l’evoluzione di queste onde sonore innescate dal contrabbasso, con la batteria a tessere le variazioni e il pianoforte a ricamarle… passa un’ora, e si perde la concezione del tempo.

The Necks

Giusto in tempo per scoprire le Tarta Relena, duo catalano di “folk rovinato e Gregoriano progressivo”: elettronica, due voci, armonie che pescano tanto nel repertorio colto di sapore liturgico come in varie tradizioni orali dell’area mediterranea. Se l’inizio è un po’ lento, il set prende vigore e cresce fino alla potentissima sequenza finale: viene in mente, qui e là, Marina Herlop (anche lei catalana). Una rivelazione, compensata – poco dopo – dalla delusione Bendik Giske. Almeno dal vivo, il sassofonista norvegese è una specie di clone di Colin Stetson: capacità innegabili, resistenza fisica ammirevole… ma gli arpeggi a fiato continuo e le microfonazioni creative di strumento e corpo del performer hanno come risultato una musica davvero troppo simile a quella del collega americano per essere interessante. Peccato.

Bendik Giske (foto Fabiana Amato)
Bendik Giske (foto Fabiana Amato)

Domenica 1 giugno

(Jacopo Tomatis) Perso il sabato in blocco, torno operativo domenica sera per la fine del set di Ghosted, collaborazione tra Oren Ambarchi, Johan Berthling e Andreas Werliin che va nella direzione di una psichedelia acida e minimalista, a tratti esaltante. Ideale lancio per il duo Ibelisse Guardia Ferragutti & Frank Rosaly (di cui abbiamo diffusamente parlato qui): il live, purtroppo, è meno interessante del disco. Non tutto è a fuoco, le voci non colpiscono, alla fine emerge un po’ di noia. Ma è un sentimento passeggero: sta per salire sul palco Alabaster De Plume. Qui – devo confessare all’amico e collega Ennio Bruno che firma con me questo pezzo – ero scettico. Alabaster mi sembrava uno di quei fenomeni spinti dall’hype, ma che poi a un ascolto più profondo rivelano poche idee nuove… e invece: tra spoken poetry, un sax con una pronuncia che oscilla fra il jazz etiope vintage e la no wave, un basso a plettro sempre sopra le righe e quasi-punk, il set è una fucilata. C’è anche spazio per una lunga tirata pro-Palestina, e un gesto politico così apertamente esplicito, e senza filtri, non è assolutamente cosa che si veda tutti i giorni. Insomma, memorabile. C’è da dire che il giornale della musica lo aveva intercettato in tempi non sospetti. Ennio, hai qualcosa da aggiungere?

(Ennio Bruno) Sì, prima del concerto sono andato a salutarlo in compagnia del nostro collega Alberto Campo e Gus (questo il suo vero nome) ci ha chiesto: «Di cosa avete bisogno questa sera?», a ben vedere una domanda più da pusher che da musicista. Superato l’attimo di sbandamento, abbiamo dato una risposta da concorrenti al concorso di Miss Italia: «Pace, amore e buona musica». «Li avrete tutti e tre, li avrete», e così è stato. Amazing grace!

Alabaster De Plume
Alabaster De Plume (foto Fabiana Amato)

(Jacopo Tomatis) E dalla bandiera palestinese, che rimane a lato palco a garrire, si passa a quella del Kurdistan. HJirok– duo fra la cantante curda-iraniana Hani Mojtahedy e il Mouse on Mars Andi Toma – sembra aggiornare certe esperienze di elettronica etnica un po’ nineties, con ritmi sufi trattati e pompati sulle basse frequenze e un po’ di campioni sporchi a fare da collante. Aleggia una sensazione di già sentito, ma il set è comunque godibilissimo.

La chiusura del palco live spetta invece agli svizzeri Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp, per i quali ho un debole da anni. A ben vedere, il giusto bilanciamento con l’inizio dei The Neck: riff da ballare, minimalismo, con in più una certa vena surreale nei testi… la degna chiusura. Mi ritiro in buon ordine per passare la linea a Ennio Bruno, in diretta dalla domenica sera.

– Leggi anche: Che musica fa l'Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp?

Jid
Orchestre Tout Puissant Marcel Duchamp (foto Fabiana Amato)

Domenica 2 giugno

(Ennio Bruno) «Ciao, Kevin, ti ricordi di me? Ti avevo intervistato tre anni fa in occasione della tua prima esibizione a Jazz Is Dead». «Ah, sì, adesso ti ho messo a fuoco». «Mi raccomando, stasera fammi sanguinare i timpani». «Penso che farò di meglio: ti sposterò gli organi interni». Ecco, me la sono cercata e infatti più tardi The Bug mi ha punito. L’ultima giornata di JID a ben vedere era la mia giornata: i dischi di Ghost Dubs e The Bug sono entrati nella mia Top 10 dello scorso anno e Neil Fraser aka Mad Professor è un produttore che ha lavorato con nomi del calibro di Massive Attack, Lee Scratch Perry e Horace Andy, solo per citarne alcuni.  

A scaldare l’ambiente ha provveduto il soundsystem Bassi Gradassi e poi è stata la volta di Ghost Dubs: Michael Fiedler, conosciuto anche come Jah Schulz, da bravo tedesco ha subito dimostrato di essere a suo agio in un posto chiamato Bunker, sparando i brani di Damaged con frequenze ancora più basse rispetto al disco e portando a termine con crudele lentezza la sua opera di distruzione della struttura e dei lavori dentistici delle prime file di spettatori. Al termine si è spostato nella zona riservata alla stampa e ha seguito le esibizioni successive ondeggiando per tutto il tempo senza muovere un muscolo del volto: un killer.

quarta serata
Foto Fabiana Amato

 

Dopo di lui Mad Professor, introdotto dal figlio, ha rappresentato il ritorno a un dub più tradizionale, più giamaicano, senza le sciabolate noise e industrial degli altri due produttori bianchi, e dunque c’è stato spazio per i riddim di “Karmakoma”, dell’album No Protection e alcuni di quelli comparsi nei più di 300 dischi pubblicati dalla Ariwa, la sua etichetta con sede a South London.

Dopo un inizio col freno a mano tirato, il Professore Matto ha preso le misure al pubblico presente e ha iniziato a pestare sui bassi, facendo ballare tutti per un’ora e mezza abbondante. Nota: quando vedi i ragazzi del bar ballare sopra i fusti vuoti di birra, vuol dire che il set sta funzionando.

Ho fatto lo spiritoso con Kevin Richard Martin e lui mi ha dato la giusta paga: dico solo che per la prima volta a un concerto ho dovuto mettere i tappi per smorzare la violenza disumana delle frequenze basse. Nota: chissà come sta oggi la ragazza che ha seguito tutto il set di The Bug posizionata a 20 centimetri da una cassa, senza spostarsi mai per un’ora e mezza. Se è sopravvissuta, è pronta per il turismo dentale in Croazia. L’esecuzione di Machines è stata il fulcro del concerto (forse avrei fatto meglio a usare il termine ordalia) e dunque il pubblico è stato investito da un vento caldo fatto di bassi tellurici, echi, delay, lamate metalliche, rumori siderurgici, dub, dub e ancora dub. Un’esibizione che ha lasciato tutti senza parole, consci di aver partecipato a qualcosa di non comune e felici di poter tornare a casa ancora vivi, anche se ammaccati. Al più presto affronterò il fatto che oggi ho il cuore al posto del pancreas: io e le mie stupide battute…

Coda

(Jacopo Tomatis) Contro il logorio delle rassegne-monstre, del temibile “jazz da assessori alla cultura” che colonizza festival in cerca di fondi pubblici, Jazz Is Dead risponde al bisogno di ritagliarsi dei momenti in cui ascoltare musica di un certo tipo e in un certo modo.

Da questo punto di vista, il festival è sempre di più chiamato a decidere che cosa farà da grande. Abbandonato da qualche anno lo spazio troppo piccolo del Cimitero di San Pietro in Vincoli, dall’anno scorso anche lo spazio al chiuso del Bunker si è rivelato inadatto al pubblico in crescita: quest’anno il palco era ancora più grande. Tutto ha funzionato molto bene anche intorno all’area live (menzione speciale: app saltacoda per acquistare la birra velocemente e senza ricorrere agli odiati gettoni. Allora c’è ancora speranza!) ma c’è l’impressione che questa sia, in fondo, la dimensione giusta per un certo tipo di ascolto. 

Gambo
Alessandro Gambo (foto Fabiana Amato)

Lo sa molto bene anche il direttore artistico Alessandro Gambo: espandersi oltre significa lottare su altri cachet e altri nomi, e dunque rischiare di perdere un pezzo della propria anima nel bilanciare sostenibilità economica e proposta artistica. E se il jazz è morto, l’anima è quella da difendere con ogni mezzo possibile.

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