AngelicA, contemporanea vivente

Si è chiusa la trentacinquesima edizione di AngelicA a Bologna: il nostro reportage

Eric Drescer (foto © Massimo Golfieri)
Eric Drescer (foto © Massimo Golfieri)
Recensione
oltre
Teatro San Leonardo, Bologna
AngelicA 2025

Trentacinquesima edizione del Festival Internazionale di Musica AngelicA, un mese di viaggi nella musica a Bologna, con una serata anche a Modena, protagonista Rhys Chatam con un’orchestra di 33 giovani chitarristi.

 La mia personalissima esplorazione della rassegna inizia con la serata con i due set di Erick Drescher e Rafael Toral

– Leggi anche: L’illusione del giudizio. Conversazione con Massimo Simonini

Il flautista tedesco si cimenta con Against Nature, composizione del 2020 di Peter Ablinger, recentemente scomparso. Il recital diviene così un omaggio e ci porta in un mondo anfibio dove registrazioni di rospi in uno stagno, suoni ultrasonici, labirinti, ellissi dialogano tessendo un paesaggio acustico affascinante per quanto austero, tra flautofoni, bottiglie, voce e flauto glissato. Da qualche parte tra le versioni dei canti degli uccelli di Messiaen, le riflessioni zen di Scelsi e l’ambient da camera iperbarica di un Pete Namlook, il set è ostico ma sa anche essere avvincente, pare cercare quasi la distanza che ottiene con lo spettatore, come se stessimo osservando strane creature marine in una specie di acquario. 

Con Toral si respira l’ossigeno delle vette: piazza qualche accordo sghembo che sa di vaghissimo jazz o di Brasile in controluce, poi parte uno space mantra che spazza via tutti i pensieri e ci sbatte su una battigia , ipnotizzati e rinati. Si vola, in questo drone ascensionale, con una planata infinita, lenta. Eric Chenaux, il fantasma di Gilberto Gil che fa ciao ciao con la manina da una stazione spaziale: l’interazione col theremin produce suoni che portano letteralmente via, il set è da brividi, magistrale. 

Foto © Massimo Golfieri
Foto © Massimo Golfieri

Mood di tutt’altro colore nella serata con Pat Thomas e Mariam Rezaei, in doppio solo e in duo. Parte l’oxfordiano con un ottimo set di elettronica, una sorta di blob radiofonico, patchwork affilato e febbrile tra musica concreta, illbient, fondali di archi, audio giornale, fughe all’alba in discarica per rovistare nella monnezza ed estrarne pepite. Conciso, teso, ispirato, pieno di groove: super. Rezaei a giradischi ed elettronica parte con un raga noise blues zeppo di asperità non adatte ai deboli di cuore. Un assalto all’arma bianca, anfetaminico, travolgente, terrore a mandorla traboccante funk, massimalismo, riddim, catastrofe, dopo/bomba, megadub. Un set molto punk, sfacciato e grondante energia, sulla scia delle musiche non musiche di Milan Knížák o delle terapie per accelerare l’acufene di Christian Marclay. Approccio incompromissorio e feroce, lirico, ironico, compiutamente maturo. Dopo la marea restano solo battiti in una camera da iperstimolazione sensoriale, poi mentre sta salendo l’ennesima marea sale anche Thomas al pianoforte, aggiungendo tempesta alla tempesta, con una pronuncia corrusca, aspra. 

Talvolta più che un dialogo pare un sovrapporsi cacofonico di monologhi a Babele: fibrillazioni, sincopi, singulti, coltelli nell’acqua, cenni, lame nella trama, l’effetto è quello di un crash non cronenberghiano. Non sempre dalle lamiere si può distillare sesso, anche se in questa poetica del frammento, del conturbante comunque ci sono germi di infranta bellezza. Annunci, smentite, catastrofi, epifanie, valanghe, alluvioni, scosse, eruzioni: dialogare, o tentare di farlo, con i volumi potentissimi di Rezaei è impresa per coraggiosi. Thomas non si tira certo indietro,  anzi. Il set, meno riuscito dei rispettivi soli, ha il fascino tremendamente pericoloso di un intervento a cuore aperto. “Se potessimo udire tutti i suoni del mondo insieme impazziremmo”, diceva Charlie Parker: eppure anche stavolta l’abbiamo scampata.

Chiude il trentacinquesimo anno la prima assoluta di Senza Voce (dal dentista), frutto di una residenza e registrazione del doppio duo di Vincenzo Vasi (voce, flauto da naso, basso elettrico) e Giorgio Pacorig (piano elettrico e synth) e della cantante Cristina Zavalloni con Enrico Zanisi al pianoforte. Il concerto vede alternarsi i quattro tra pezzi suonati tutti insieme a frangenti in cui tocca a un duo per volta, con la boutade della chiamata sulla poltrona del dentista come espediente scenico. Dal foglio di sala: ”Due cantanti, un uomo e una donna, rimasti senza voce, si incontrano in una sala d’aspetto di un dentista che ricorda vagamente un palcoscenico. Entrambi hanno un problema al dente del giudizio. Giudizio che perderanno poco dopo insieme al proprio dente, ma in compenso ritroveranno la voce, cantando, accompagnati dai rispettivi dentisti... ehm, pianisti.”, queste le parole dello stesso Vasi. 

Foto © Massimo Golfieri
Foto © Massimo Golfieri

Il repertorio scelto è eclettico, tra ironia, frangenti di puro struggimento e un pizzico di accademia involontaria; si spazia da Granados a Chopin, dai Telex a Claudio Villa, da Lou Reed a Franco Califano, da Tristan Honsinger all’immortale classico napoletano "Fenesta ca lucive". 

Indiscutibile la straordinaria bravura dei quattro; alcuni ottimi momenti, ma in generale ci saremmo aspettati qualcosa di più e forse un approccio diverso: forse sarebbe bastato qualche giorno in più di lavoro insieme per approfondire meglio e restiamo comunque sintonizzati in attesa di futuri sviluppi. 

In apertura di serata il direttorissimo Massimo Simonini aveva ricordato l’importanza di rappresentare le più varie espressioni musicali e soprattutto di dare spazio alla musica vivente, offrendo agli ascoltatori ogni sera un mondo diverso. All’anno prossimo.

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