Una Vedova allegra pop

Venezia: alla Fenice l'operetta di Lehar secondo Damiano Michieletto

Vedova allegra alla Fenice
Foto di Michele Crosera
Recensione
classica
Venezia, Teatro La Fenice
La vedova allegra
02 Febbraio 2018 - 13 Febbraio 2018

Com’è pop la Vedova allegra  di Damiano MichielettoGiustamente pop, direte voi (e io con voi), trattandosi di un’operetta, genere che abitualmente ci sembra uscire dal trumeau della nonna, tra sbuffi di cipria e aromi di naftalina.

Intuendo ciò che è evidente, ma che nei teatri non si vede così spesso – in una sorta di nemesi da Lettera rubata di E.A. Poe che trova sponda in una certa autorialità compiaciuta – il regista restituisce il lavoro di Lehar alla sua più immediata natura di intrattenimento, facendolo girare come un Grease appena sfumato di malinconia.

La trasposizione delle vicende in clima anni Cinquanta si rivela infatti un potente specchio di quanto siamo ancora oggi, non solo e non tanto per la tanto sbandierata questione delle banche sull’orlo del fallimento (che certo consente di svincolarsi dall’impolverato schema ambasciata-Maxim), quanto per quel senso di “nostalgia canaglia” che continua a pervadere l’immaginario televisivo e non solo di una società che «ha radicato il suo credo etico e civile nella gioia di vivere e nel far quattrini», come scrive Alberto Massarotto del pubblico di fine Ottocento nei confronti dell’operetta, descrizione che possiamo, con analogo senso di ineluttabile decadenza, usare anche oggi.

Le danze yé-yé nel dancing del secondo atto non sono dissimili a quelle che si possono vedere in una trasmissione della domenica pomeriggio, così come il tenero ballo degli anziani sul Viljas Lied, quasi un flash straniante degli approcci di Uomini e donne senior della De Filippi.

Non sembrino irrispettose o arbitrarie queste immagini. Siamo noi che siamo così, che ci appassioniamo più alle corna che alla Patria (la Vaterland cui si richiama affannosamente il Barone Zeta), che alle serate in un locale licenzioso abbiamo sostituito il più pigro sognare le audaci ballerine (o altro, sullo schermo di un computer che lo svogliato protagonista Danilo avrebbe certo avuto sulla sua scrivania), come accade nel terzo atto, in cui la proiezione onirica tiene salda la drammaturgia e quella centralità del denaro che agglutina tutto l’allestimento.

E infatti lo spettacolo gira che è una meraviglia, diverte e avvince, strappa applausi, non solo quelli finali, ma anche numerosi a scena aperta, talvolta – nella replica della domenica pomeriggio che ho seguito – del tutto incongrui rispetto a quanto è successo, ma se hanno un qualche senso le righe che precedono, capite che va bene così.

Stefano Montanari dirige con la dovuta chiarezza, assecondando il mood collettivo con un dinamismo quasi settecentesco, che se da un lato evita pericolosi aumenti di glicemia, elude anche ogni possibile sguardo novecentesco alla partitura, dando un bel colpo di evidenziatore a questo distopico divertirsi. Coerente.

Bravi tutti sul palco, dall’azzeccato Danilo di Christoph Pohl (che già avevamo apprezzato nel Tannhauser) alla frizzante vedova caratterizzata da Nadja Mchantaf, passando per una Adriana Ferfecka che disegna una Valencienne vibrante e chiaroscurale e tutti gli altri. L’aspetto attoriale trova nel Barone Zeta di Franz Hawlata e nel Niegus di Karl-Heinz Macek (folletto del ventaglio, deus ex machina, CTRL+ALT+CANC della situazione) gli elementi più efficaci.

Tutto molto divertente e, in fondo, anche un po’ inquietante.

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