La scelta di aprire la stagione 2002 del San Carlo con la ripresa della Turandot firmata da David Hockney per l'Opera di San Francisco, è stata felice ma non priva di problemi: il sollevamento del palcoscenico di circa un metro, per pareggiare il dislivello tra il fondo e la ribalta, oltre a creare un sgradevole effetto visivo, lascia piuttosto lontani i cantanti dal proscenio, creando una distanza eccessiva rispetto alla buca dell'orchestra, con tutti i difetti acustici che si possono immaginare. Il risultato complessivo però compensa ampiamente questi difetti, presentandoci una Turandot depurata di tutta l'insopportabile paccottiglia pseudo-cinese purtroppo ancora tanto diffusa, e restituita alla sua originaria dimensione di fiaba calata nella temperie della modernità. L'occhio è quello di uno dei maggiori pittori contemporanei e si vede: le mura della città imperiale e la reggia di Turandot appaiono in prospettive sghembe squadernate in verticale come nelle stampe di Hokusai e Hiroshige che piacevano tanto ai Nabis; la tenda del secondo atto viene trasformata in un fondale in cui i fregi orientali sono incastonati da un décor postmoderno; il giardino dell'inizio del terzo atto ci appare come un collage matissiano fatto di ombre nere e turchine destinate a cangiarsi magicamente nell'ultimo quadro in stilizzate e incandescenti silhouettes della reggia. Servita a dovere dai bei costumi di Ian Falconer, esaltata da un disegno-luci magistrale, la Turandot vista da Hockney è tutto un sfavillio di contrasti cromatici tra gamme di porpora e nero, verde acqua e amaranto, indaco e rosa, che fanno pensare ora alle lacche cinesi, ora all'Art Déco (di cui erano intrise le scene che Galileo Chini aveva concordato con Puccini per la prima assoluta ) ora ai Fauves. Dal canto suo la direzione di Gabriele Ferro - che governa ormai l'orchestra del San Carlo con grande disinvoltura - sembra trovarsi in linea con l'impronta visiva dello spettacolo, nel suo approccio tagliente e quasi divisionistico, volto a mettere in evidenza gli aspetti più innovativi della partitura pucciniana: un'intenzione che raggiunge interessanti risultati, soprattutto nel primo atto, anche se talvolta, complice la particolare disposizione delle scene di cui si è detto, dà luogo a qualche squilibrio nel rapporto tra le voci e l'orchestra. La buona prova del coro diretto da Ciro Visco, si è unita a quella di una compagnia di grande solidità. Nelle parti protagonistiche due interpreti pucciniani di notevole esperienza come Nicola Martinucci - un Calaf ancora di ottima presenza vocale anche se a volte un po' appannato negli acuti - e Giovanna Casolla, autorevole e granitica Turandot, seppur tendente ad un vibrato troppo largo. Ottima conferma è venuta da Norah Amsellem, fascinosa e sensibile nella parte di Liù, dal commovente Timur di Giorgio Giuseppini, e dai tre ministri, Fabio Previati, Gregory Bonfatti e Patrizio Saudelli, ( rispettivamente Ping, Pang e Pong), tutti e tre perfettamente a loro agio nel ruolo comico-grottesco ben evidenziato dalla regia di Hockney. Aldo Bottion (l'Imperatore), Carlo di Cristoforo (il Mandarino) completavano degnamente il cast. Calorosissimo successo per tutti.
Interpreti: Martinucci, Casolla, Amsellem, Giuseppini, Previati, Bonfatti, Saudelli, Bottion
Regia: David Hockney
Scene: David Hockney
Costumi: Ian Falconer
Orchestra: Orchestra del Teatro di San Carlo
Direttore: Gabriele Ferro
Coro: Coro del Teatro di San Carlo
Maestro Coro: Ciro Visco