"Il sogno di Urizen", una delle commissioni del Ravenna Festival 2002, ha riunito in un'operazione di grande potenza espressiva e simbolica l'allestimento visivo di Jannis Kounellis e la densa e tensiva partitura di Crivelli: questa si segnalava per sciogliere nel visionario tessuto sonoro i versi, visionari essi stessi, del I libro dei Libri Profetici di Blake, affidandone la recitazione in sovrapposizione agli stessi strumentisti e facendone un'importante livello timbrico.
"Il sogno di Urizen" è una delle commissione del Ravenna Festival che quest'anno ha scelto un titolo non bisognoso di particolari chiose: "New York: undici settembre". Non sappiamo quanto apocalittica possa essere l'invenzione visionaria di William Blake, sul cui Libro I dai "Libri profetici" è costruita la partitura di Carlo Crivelli, noto più come autore di pregevoli e non scontate musiche per film, ma esponente senz'altro tra i più interessanti della multiforme scuola di Domenico Guaccero. Certo, la potenza allucinata di Blake, politically uncorrect per il suo tempo, investe col suo segno l'intera operazione, alla quale dà un apporto non indifferente l'allestimento visivo di Jannis Kounellis. Da uno degli inventori dell'arte povera era inutile aspettarsi grandi apparati, tanto più che nulla avrebbe tenuto il passo con le immaginifiche visioni del testo: una poesia-profezia di una Genesi, o meglio di una caduta-rapprensione dall'Eterno all'umano, narrata come in uno stato onirico-delirante che autorizza a interpretarla anche come un sogno planante gradualmente nella realtà. Kounellis pone sulla scena, per quasi tutto lo spettacolo (70 minuti), un semplice elemento verticale, una mastodontica trave, che spartisce in modo geometrico, rigidamente simmetrico, lo spazio - un tempo sacro, dunque predisposto ad una soluzione simile - del Teatro Rasi. Dopo più di un'ora di rigida fissità simmetrica, scricchiolante solo nella giacca appesa alla trave, in concomitanza con lo sciogliersi della dolorosa genesi umana nella diaspora e nell'esilio, si alza lentamente un'altra trave, non proprio orizzontale, ma diagonale quanto basta a creare una croce sghemba e malcerta col primo asse: la storia (o la realtà) può (ri)avere il suo inizio. Se qualche brivido corre nel pubblico, il merito è anche della musica di Crivelli: per sostenere il livello del testo blakiano, il musicista romano tiene la trama sonora ad un livello di tensione mediamente molto alto, saturandolo ancora con lentezza e quasi per inerzia, ma senza ricorrere a spicci mezzi minimalisti; le tecniche messe in campo indicano invece una straordinaria declinazione visionaria di tutti i parametri, a cominciare da un'armonia riconoscibile nei suoi oggetti, ma metamorfizzata dal decorso lento (salvo i rilasci delle tensioni accumulate) e dall'animazione figurale, che concorre ad un lavorìo timbrico di scelsiana memoria. Ingrediente fondamentale di tale visionarietà è il discioglimento - nella partitura per 11 strumenti - del testo poetico, recitato in sovrapposizione plurilinguistica dagli stessi esecutori (direttore compreso): un magma di parole, ma non di fonemi, dunque di parole-significanti che si fanno elemento timbrico, mantenendo un residuo del loro significare (e, fino a un certo punto, narrare, o perlomeno descrivere), fino all'epilogo narrativo finale affidato infatti ad un solo narratore. Nonostante l'impegno di ascolto non indifferente, il sostanzioso pubblico si è rivelato infine soggiogato dallo spettacolo, applaudendo a lungo e con calore autori e bravissimi interpreti: l'Officina Musicale, diretta con trasporto e gran tiro da Orazio Tuccella, si è rivelata complesso di prim'ordine nel tener testa a concentrazione espressiva e difficoltà esecutiva della partitura.
Regia: Jannis Kounellis
Orchestra: Officina Musicale
Direttore: Orazio Tuccella
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