Un Rota fiabesco e nostalgico a Martina Franca

Il raro Aladino e la lampada magica in un’ottima realizzazione per il Festival martinese

Aladino e la lampada magica (Foto Clarissa Lapolla)
Aladino e la lampada magica (Foto Clarissa Lapolla)
Recensione
classica
Martina Franca, Palazzo Ducale
Aladino e la lampada magica
27 Luglio 2024 - 04 Agosto 2024

Tra le preziosità dell’edizione 2024 del Festival della Valle d’Itria, la casella novecentesca è toccata a Aladino e la lampada magica di Nino Rota, compositore cui la kermesse ha dedicato una ricorrente attenzione. Il titolo è peraltro tra i meno eseguiti in Italia della produzione scenica di Rota, ultimamente oggetto di riproposte e riconsiderazioni: a chi scrive, appare che Aladino, dopo l’opus perfectum melodrammatico rappresentato da Il cappello di paglia di Firenze, e le parziali ma feconde sollecitazioni in direzione di una drammaturgia musicale modernista nei lavori musicoteatrali degli anni Cinquanta (echeggiate con prudenza nel loro linguaggio musicale), sia emblematico di un ripiegamento, e conseguentemente responsabile di un’etichetta d’inattualità che ha finito con l’investire un po’ genericamente quella produzione. La scelta del soggetto può certo aver toccato corde profonde nella sensibilità di Rota, sia per le attinenze magiche e iniziatiche del plot, sia per l’ampia possibilità di imbastirvi musicalmente un cosmo di reminescenze, un ‘repertorio (in)volontario della memoria’, che è ormai uno dei tratti riconosciutigli entro una modernità di pratiche calate nell’era della riproducibilità tecnica e declinate con fine ironia. La partitura poi presenta la consueta perizia artigianale, con punte inventive nella magistrale quanto caleidoscopica orchestrazione e nel trattamento parattattico di elementi dell’armonia tonale: se un’estetica neo-classica mostra insieme il suo modello linguistico e il suo distanziarsene, però, su altri piani della sintassi armonica della tonalità come dell’organizzazione fraseologica e metrico-ritmica Aladino… intriga assai meno dei lavori sopra citati, inclinando verso la nostalgia più che l’ironia.

Merito comunque alla programmazione del Festival l’aver propiziato la conoscenza diretta di una tale rarità, e averne fornito una realizzazione di tutto rispetto nei suoi interpreti collettivi e individuali: compagnia di canto assai solida, professionale pure nei non pochi ruoli solo apparentemente secondari, ed encomiabile in tutti ruoli principali, a partire da quello del titolo (Marco Ciaponi è stato un Aladino sempre sicuro e vocalmente ben tornito anche nella pronuncia); una menzione speciale meritano Marco Filippo Romano, basso impegnato in due personaggi resi con una ben caratterizzata differenziazione, ed Eleonora Filipponi, ottime doti da mezzosoprano sciorinate quale Madre di Aladino. Orchestra e Coro del Teatro Petruzzelli hanno fornito una esecuzione lusinghiera, per compattezza e nuances insieme, sotto la guida attenta e padrona della partitura di Francesco Lanzillotta; lodevolmente inappuntabile il Coro di voci bianche della Fondazione Paolo Grassi, impiegato qui con funzioni sceniche non di secondo piano.

Intrigante simbolicamente il dispositivo scenico escogitato da Leila Fteita per la regista Rita Cosentino: un fondo costruito a forma di esse, disegnato col micro-modulo della costa di libri, ovvero una biblioteca infinita che nelle azioni-cornice iniziali alimenta la narrazione e la fascinazione fanciullesca per la fiaba, ricollegata circolarmente all’azione finale. Le finestre che vi si aprono e chiudono funzionano bene per segnare i salti spaziali della seconda parte, ma si sente la mancanza di una realizzazione più visuale della  moltiplicazione dei forzieri, uno dei culmini spettacolari della vicenda. 

Pubblico numeroso e assai plaudente alla fine, sebbene non tutti nel cortile del Palazzo Ducale abbiano resistito fino al termine della rappresentazione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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