Un giorno di gloria

Torna in una pregevole produzione l'opera più negletta di Verdi: un testo largamente imperfetto, salvato dall'allestimento scenico e dagli interpreti musicali.

Recensione
classica
Teatro Comunale Bologna
Giuseppe Verdi
04 Aprile 2001
Sì, signori: si tratta proprio della fantomatica opera comica di Verdi, di quel clamoroso fiasco giovanile di cui parlano tutte le agiografie e i film biografici sul nostro padre della patria, imputando la colpa ai lutti familiari che avevano appena colpito il compositore. Ci voleva l'anno verdiano per una riesumazione che sa di scuse postume (anche la Scala che l'affondò senza repliche nel 1840 vi provvederà in settembre), benché tutte le volte in cui in passato la partitura è ricorsa in appello, con tanto di dignitosissime riprese teatrali e una lussuosa registrazione discografica, il verdetto non sia mai stato del tutto rovesciato. Musica piacevole all'ascolto, ma scollata da un'azione che di buffo ha davvero poco (un aristocratico spensierato viene costretto da ragion di stato a farsi passare per Stanislao, re di Polonia, così da permettere al sovrano di rientrare incolume a Varsavia), con un libretto che per gran parte potrebbe benissimo reggere con un'intonazione musicale da tragedia piuttosto che da commedia. La riproposta bolognese trova il suo punto forte nell'allestimento di Pier Luigi Pizzi, assai lodato già tre anni or sono al suo debutto parmense ed oggi ancor più curato e frizzante. Su un impianto scenico nobile e austero sfilano splendidi costumi secenteschi (con tanto di parrucconi a boccoli) che ricoprono la totalità dell'arco cromatico, per il piacere dell'occhio. La regia provvede poi ad inventare ciò che non c'è, sovrapponendo al testo uno spettacolo inedito, a esorcizzare la meschinità della pièce con ambientazioni sempre cariche d'inventiva, cercando d'arricchire il testo con quelle "buffonerie" che libretto e musica troppo spesso ci negano. Rinverdendo poi l'insegnamento di Jean-Pierre Ponnelle e delle ormai storiche sue regie rossiniane, imbocca di frequente la strada del cosiddetto "micheymousing" tanto caro ai cartoni animati: i gesti musicali che emergono dal continuum sonoro vengono visualizzati in movimenti scenici sincronizzati con la partitura, facendo loro assumere significati extramusicali che nelle intenzioni del compositore non avevano. E così i banalissimi gorgheggi di una primadonna vengono riletti come urletti da femminuccia, lanciati nei ripetuti tentativi di immergersi in una vasca di acqua (evidentemente) non troppo calda; oppure le volute di una cadenza solistica risultano raddoppiate visivamente dalle smancerie delle ancelle in adorazione della padrona; e il meccanismo a scatti di un settimino di per sé non memorabile si fissa icasticamente nella mente dello spettatore come un "nodo avviluppato" redivivo, in un carillon a stretto rigore di tempo musicale. La stessa sinfonia, considerata evidentemente priva di un'autosufficienza estetica, diviene pretesto per un articolato passo di danza, impedendo allo spettatore di concentrarsi su una musica fra le più bizzarre e più goffe (ma non meno interessanti) che Verdi abbia mai composto. Il tutto, secondo lo stile di Pizzi, sempre con grande misura ed eleganza (disturba solo quando, volendo accelerare i tempi, predispone davanti allo spettatore la scena successiva mentre ancora volge al termine il brano musicale precedente: un atto di lesa maestà formale). Il direttore Maurizio Benini parte da premesse analoghe: credendo poco - e non a torto - nel valore della partitura che sta dirigendo, sprona l'orchestra senza posa, imprimendo energia vitale alle tante cabalette "garibaldine" che potrebbero ben alloggiare in "Nabucco" o "Attila", ma dimenticando poi di scalare la marcia per favorire il lirismo di certi abbandoni patetici. Tutto scorre fra vigore e rigore, con rari sbandamenti. Il cast vocale è uno dei migliori che, sulla carta, si possano oggi immaginare: artisti ben noti, confermano ognuno i tanti pregi e i pochi difetti. Con la sua vocalità luminosa e spigliata, Eva Mei (Giulietta) soffre solo dell'inconsistenza del personaggio che interpreta, al contrario di Anna Caterina Antonacci (la Marchesa) che supplisce proprio con l'arte scenica a certe opacità del registro acuto, controbilanciate per altro da un impagabile color brunito in registro medio-grave. Il suo è di fatto l'unico personaggio scolpito a tutto tondo, cosa che le limitazioni del testo rendono impossibile a Bruno Praticò (il Tesoriere) e Alfonso Antoniozzi (il Barone), impegnatisi al meglio in due ruoli che - sempre sulla carta - avremmo pensato invertiti fra i due interpreti: facendo di necessità virtù, col grande mestiere che si ritrovano, i personaggi loro se li creano autonomamente, l'uno con gesti calcolati, l'altro con una dizione artefatta. Stretto in panni angusti anche Alessandro Corbelli (il Cavaliere), in un ruolo che dovrebbe imporlo come mattatore della serata, ma che più di tanto anch'esso non consente. Infine Giuseppe Filianoti (Edoardo): un timbro, una linea di canto e una dizione scolpita che molti tenori possono ben invidiargli, ma l'intonazione, ahi!... continua a rimanere il suo punto debole, frutto forse di tensione emotiva e causa di discontinuità nella resa; risultato: ci troviamo di fronte a un giovane cantante che da quattro anni ormai s'impone come una lusinghiera promessa, senza essere però ancora divenuto una rassicurante certezza. Molti posti vuoti (ma Leyla Gencer spettatrice d'eccezione). Pubblico freddino, come spesso alle prime di questo teatro.

Note: all. del Teatro Regio di Parma e del Teatro Comunale di Bologna. Prima esecuzione a Bologna

Interpreti: Antonacci, Antoniozzi, Corbelli, Filianoti, Mei, Praticò

Regia: Pier Luigi Pizzi

Scene: Pier Luigi Pizzi

Costumi: Pier Luigi Pizzi

Corpo di Ballo: Balletto di Puglia

Coreografo: Luca Veggetti

Orchestra: Orchestra del Teatro Comunale di Bologna

Direttore: Maurizio Benini

Coro: Coro del Teatro Comunale di Bologna

Maestro Coro: Piero Monti

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