Traviata senza psicologia
L'opera diretta da Gatti con Diana Damrau inaugura la stagione alla Scala
Recensione
classica
La Traviata che ha aperto la stagione e concluso il centenario verdiano alla Scala verrà ricordata per la direzione di Daniele Gatti e per il commovente "Addio del passato bei sogni ridenti" di Diana Damrau. Il maestro milanese ha scelto un organico ristretto (non più di 50 strumentisti) che gli ha consentito trasparenza, agilità, leggerezza, controllo assoluto del suono. Talvolta si è permesso anche di rischiare tempi lenti, che hanno dato la sensazione d'essere condotti fin dentro la testa di Verdi. Sono stati passaggi straordinari. Il soprano, dotato di voce di gran classe e di bellissimo timbro, è invece rimasta sempre ai margini del personaggio di Violetta. Tranne in quel momento del terzo atto. Il regista Dmitri Tcherniakov, nonostante le dichiarate intenzioni di approfondimento psicologico, probabilmente non sopporta i "monologhi": non ha consentito a nessuno dei protagonisti di rimanere solo con se stesso a pensare. Tutto lo sfogo del primo atto da "Follie, follie" in poi, Violetta lo comunica all'onnipresente Annina (Mara Zampieri, con capelli rossi). Mentre per tutto l'atto non la smette di bamboleggiare come una diva dell'operetta, senza nemmeno lasciarsi sfiorare dalle parole d'amore, tanto che quando deve cantarle sporca le pause con inutili risatine atteggiandosi ad allumeuse. Identica paura della solitudine e del pensiero l'ha Alfredo (Piotr Beczala, corretto vocalmente ed esagitato nei gesti), che canta dei suoi "bollenti spiriti" ora al servo Giuseppe ora alla stessa amata, nel mentre prepara con lei la pizza nella cucina falso rustica del secondo atto (dov'è finito il "tanto lusso" denunciato da Germont?). Così pure lo straziante "a parte" di Violetta in casa di Flora "Alfredo, Alfredo di questo core", è ridotto a dialogo con l'amato, che a quel punto dovrebbe capire cos'è stato tramato alle sue spalle. Violetta gli si inginocchia pure davanti togliendosi la gigantesca parrucca di riccioli biondi. Insomma ogni introspezione solitaria prevista da Verdi-Piave viene stravolta dal regista in una forzata relazione scenica. Col risultato che tutto rimane superficiale e mai drammaturgicamente convincente. Quando arriva in campagna Germont (Željko Lucik voce sicura e buona presenza scenica), Violetta non smette un attimo di trafficare, di preparare il the, di far ordine, come colta dalla sindrome di Tourette: "Era felice troppo" come "Dite alla giovine", diventano così batture colloquiali di una massaia indaffarata. In tutto lo spettacolo, tranne nell'aria del terzo atto (dove guarda caso Violetta è sola e isolata), non traspare un attimo di commozione. Il realismo è una gran brutta bestia e soffoca perfino il dolore. Comunque lo spettacolo è risultato coerente nella sua "modernizzazione", con due imprevisti intoppi dell'impianto elettrico in casa di Flora che hanno lasciato il dubbio se fosse un calo di tensione o un effetto voluto.
La serata è iniziata con Gatti che ha chiesto un minuto di silenzio in ricordo di Nelson Mandela e con calorosi applausi al presidente Napolitano, si è conclusa con un'ovazione per Diana Damrau, qualche buu per il tenore, un sommesso vociare in loggione fra partigiani e detrattori di Gatti, e con una sonora bordata di buu e fischi per il regista.
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