Tra il buio e la luce

MaerzMusik di Berlino atto terzo

Recensione
classica
Platea piena, all’Haus der Berliner Festspiele, per il primo appuntamento serale di domenica 19: attesa per la prima berlinese del " 10. Quartetto” di Haas? Curiosità per la novità multimedia (con quartetto) della Walshe? Il fil-rouge dell’appuntamento sembrava puntare sulla riformulazione dell’idea di quartetto d’archi, e non solo per allargamento: "2. Streichquartett di Peter Ablinger è in realtà un’opera-video, che lascia impietrite sullo schermo per 4 minuti quattro donne (iraniane, a giudicare dai nomi) nella classica posa dell’esecuzione quartettistica, archetti pronti sugli strumenti; immobilità, seriosità d’espressione e silenzio – insieme agli altri elementi visuali descritti, quelli ‘inter-culturali’ soprattutto – possono far scattare molteplici letture, durante e dopo quei 4 minuti, nell’attonito fruitore… Le sospendiamo, per volgerci al "10. Quartetto” in cui Haas sottrae ai presenti – invece del suono e della presenza diretta – il gesto degli esecutori: il brano va infatti ascoltato nel buio più totale, e perciò gli stessi strumentisti devono poter memorizzare il percorso della partitura senza una lettura in corso d’esecuzione. Tale sottrazione non è nuova in Haas: basti pensare al suo Terzo quartetto, o al noto – e notevole – in vain, in alcune fasi del quale le luci vengono abbassate fino alla tenebra, senza che l’ensemble cessi di prolungare figure sonore già in corso. Rispetto a quella riuscitissima articolazione dello stato percettivo, qui la situazione è estrema e in-articolata; perciò balza in primo piano il problema compositivo, e le conseguenti soluzioni (una scrittura d’azione massiva, olistica, solo prudentemente contrappuntistica) escogitate da Haas per plasmare la forma, magistralmente restituite – quasi superfluo dirlo – dai componenti dell’Arditti String Quartet. Scoppiettante, caustico, estroverso, Everything is important della Walshe rovescia sul pubblico un flusso sapientemente folle di informazioni audio-verbo-visive in parte saccheggiate nello stupidario del web; non ci si annoia, anche grazie alla magnetica performance dell’irlandese e alla relativa indipendenza dei diversi flussi, ma a fine giornata si è lasciata preferire la realizzazione live della componente musicale del film An Gléacht, un mediometraggio (realizzato insieme al conterraneo Caoiminh Breathnach) che ricorda la visualità simbolico-spiritualista di Paradjanov. Anche qui le traiettorie visive e acustiche procedono in relativa autonomia, scavando ciascuna nel proprio dominio (il ricorrere magico di immagini simbiotiche di natura e tecnica, contro l’ingigantimento discorsivo di eventi sonori microscopici), con esito assai fascinoso.

La serata lunedì 20 è arrivata a espandersi su tre tempi, non brevi, insinuandosi nelle pieghe in cui il pensiero sonoro occidentale del XX secolo ha guardato a oriente, fino a esempi di recentissimo connubio. Chi scrive, anche per redigere questa cronaca, si è dovuto arrendere prima che i lavori firmati da Jeremy Woodruff (una convoluzione di Bodin de Boismortier e Sankarabhanarama) e Ramesh Vinayakam, nonché musica karnatica, potessero tentare di risollevare un tour-de-force un po’ diseguale. D’altronde, siffatte impaginazioni incoraggiano una partecipazione elastica alle varie fasi della serata da parte del pubblico, il quale – in autentica Festatmosphäre – non se si lascia scappare occasioni di pausa o evasione nel café del teatro o in quello più vicino. Manco a dirlo, a fare il solito figurone è stata la musica di Scelsi: in Manto i bordoni della viola scordata mirano sempre più chiaramente al ruolo di generatori di spettri in-armonici, come l’uso della voce nell’ultimo pezzo (bravissima, a volte fin troppo precisa e ‘polifonica’, Kristin Maria Pientka). L’estenuante lavoro ritualistico di Vivier (Learning) è uno studio sulla generazione melodica, con Messiaen sullo sfondo, e qualche zampata lì dove la sospensione tonale-modale è più riuscita. Chennai Scenes di Ana Maria Rodriguez è parsa un’ampia cadenza del clarinetto (contra)basso con corteggio di colorazioni etnico-elettroniche. Alvin Lucier, uno dei festeggiati della rassegna, era presente con due titoli di prose music: anche se risalgono agli anni Settanta, lavori del genere mantengono qualcosa dello spirito ‘fluxus-60ies’, nel quale spesso il concetto, l’idea in quanto tale, travalica la realizzazione. Nondimeno, il portato simbolico-gestuale di Love song (due violini collegati da una corda sonora metallico applicata ai ponticelli, coi due performer che suonano-ruotano alla distanza della corda tesa, legati eppure allontanati) si rivela plastico e fulminante; l’idea di Memory Space è stata invece convertita troppo letteralmente come brano cameristico dagli interpreti. Ciò non toglie che tutti si siano dimostrati d’alto livello esecutivo, meritando – insieme a Lucier – un plauso convinto di una sala inizialmente (cioè prima che le sirene dei café berlinesi attirassero musiconauti) affollatissima...

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