Tempo reale, aria nuova
Tempo Reale 2021 a Firenze ha proposto tre giorni tra ricerca e sperimentazioni
Eravamo pronti a goderci Aria - festival 2021 di Tempo Reale – all’aria aperta nell’affascinante location della terrazza di Villa Strozzi ma un imprevisto e tardivo divieto legato a presunti motivi di sicurezza di quello spazio ci ha negato questa attesa novità. L’alternativa non è certo un ripiego, la Limonaia è la roccaforte storica di Tempo Reale e quindi, a parte qualche problema di temperatura, ci siamo sentiti a casa.
Ci siamo sentiti subito a casa soprattutto quando Michele Rabbia ha disposto i suoi oggetti magici sulla pelle del tom basso davanti a lui. Lì è cominciato un viaggio unico nei mondi sonori che il percussionista costruisce, disegna, elabora con una maestria che sempre stupisce. Dal tamburo ancestrale in apertura al lungo suono sintetico, alieno e poetico, dopo quasi un’ora, è tutto un susseguirsi di figurazioni, cambi di scenario, movimenti di una sinfonia composta da una ragnatela pulsante di invenzioni e trovate, tasselli di una costruzione, di una visionarietà costante e coinvolgente. Oggetti quotidiani, campane, piatti, palline, archetti, mazze felpate, bacchette, metronomi, diapason, sulla pelle del tom, si combatte una battaglia tra forze centrifughe che si contrastano, si affiancano, si allontanano. L’elettronica cementa tutti i suoni, li cattura, li deforma, li amplifica, garantendo un sottofondo mobile, percettivo. Al momento forte quasi inudibile Rabbia alterna la poesia del quasi silenzio, del dettaglio, mette in gioco anche la voce ma soprattutto un gesto che entra con forza nella drammaturgia di un set impagabile.
Davanti a Rabbia è già posizionata la chitarra color panna, attorniata da una raggera di pedali lampeggianti, di Julien Desprez. Ancora aleggia nello spazio della Limonaia l’ultima vibrazione del percussionista che il chitarrista francese ci trascina nel proprio mondo. E non è proprio una passeggiata. Saturazione, distorsione e rumore prendono forma violentemente in un contesto ritmico ossessivo e ripetuto, tipo catena di montaggio pre-robotizzata. Corde costantemente stoppate, sberle alla struttura dello strumento, pugni sul manico, producono un pulviscolo incessante, che Desprez ciclicamente blocca facendoci piombare in inquietanti silenzi di pochi secondi, dove non c’è tempo per prendere fiato. Questa intelaiatura viene attraversata dall’uso del tutto originale dei molti pedali a disposizione. Il chitarrista con una gestualità che sa di antico, evocando l’uso della pedaliera dell’organo a canne, li coinvolge tutti in una trama ritmica e gestuale di notevole impatto. Rimane un dubbio nella testa, oltre la destabilizzazione provocata dal rumore, che Desprez nella ripetizione di brevi blocchi praticamente simili denunci di possedere poche idee di sviluppo e soluzioni creative limitate rispetto alla durata reale della performance.
Riguardo alla durata, Vincenzo Scorza invece punta con il proprio dispositivo elettronico alla brevità come scelta comunicativa. Scelta che garantisce coerenza e concentrazione riguardo ad una esplorazione dei suoni, attraverso un sistema modulare, che gli permette di creare forme morbide dal sapore meditativo, su uno sfondo denso di piacevole impatto. Certo è che Scorza rischia poco e si rifugia spesso in qualche, pur seducente, déja vu di rock elettronico targato anni Sessanta. Chi rischia molto ma con risultati modesti è Dario Fariello con le sue ance, campionatori e sintetizzatori. Sul fronte strumentale, usa sopranino e il raro soprillo, ricerca con slap, soffi, suoni inusuali ed estremi, qualcosa che potrebbe ricordare il Braxton giovanile (con i dovuti distinguo) che poi cattura ed elabora su fondali scuri e piatti. Tutto è frastagliato, spezzettato, senza anima né poesia, si apprezzano qua e là i brevi dialoghi tra ancia e dispositivi, ma risultano isolette di un mare immobile.
Zumtrio (Fancesco Canavese chitarra elettrica-Francesco Giomi radio analogica e sintetizzatori-Stefano Rapicavoli batteria e percussioni) è un progetto nato all’interno di Tempo Reale che, come laboratorio di ricerca, cresce ad ogni proposizione. L’incontro tra linguaggi diversi, da quello elettroacustico, all’improvvisazione pura di ambito jazz/rock, sprigiona un’energia spumeggiante, una musica trasversale pulsante e viva, dove l’ascolto reciproco e le relative relazioni creative tra i tre risultano l’arma vincente. L’uso della radio analogica incastra voci diverse, frammenti di pubblicità, spezzoni di canzoni, radiogiornali, nel tessuto sonoro creando un piacevole disorientamento percettivo. La chitarra di Canavese è sempre alla ricerca di soluzioni imprevedibili con accenti hard e lunghe escursioni extragalattiche. Le pelli e piatti di Rapicavoli, attraverso sostenute poliritmie afro, un uso brillante dei piatti e di piccole percussioni, completano il quadro mosso di un progetto in piena evoluzione.
Dal sapore internazionale l’ultima serata di Tempo Reale Festival 2021: Anthony Pateras dall’Australia (anche se vive attualmente a Berlino), Lea Bertucci da New York. Due mondi diversi. Pateras presenta due sue composizioni per pianoforte su basi preregistrate con lo stesso strumento e subito nella Limonaia si diffonde una soave atmosfera poetica. Potremo d’istinto definire il musicista australiano un minimalista, ma ci pare così di ingabbiarlo in qualcosa di inadeguato e limitativo. Le sue composizioni, oltre la caratteristica di musica sospesa, scolpita tra silenzi nota per nota e fatta vibrare, con pochi accordi astratti e molto gesto, rivelano una profondità, la coerenza di opera compiuta che, come fruitori attivi, abbiamo il piacevole compito di ricomporre. Composizioni che si muovono sinuose in un territorio come luogo metafisico, spazio pittorico da riempire con pochi segni e colori, e qui non possiamo non citare Morton Feldman non solo sul piano del linguaggio ma anche su quello dello stretto rapporto del compositore americano con le arti figurative. Seducente il dialogo costante con i nastri preregistrati, uno specchio continuo, interscambio, domanda e risposta. La spazializzazione multicanale del secondo brano aumenta, se possibile, il piacere sensoriale di vivere in mezzo ai suoni.
Lea Bertucci ci invita subito a lasciarsi andare dal suono spirituale e contemplativo dell’harmonium che poi rimane attivo per buona parte della sua performance. Infrange, sporca questa base celestiale con i suoi dispositivi elettronici, il contrasto è forte. Imbocca poi il luccicante sax alto con il quale modula frasi spezzate e liriche, riprese e fatte rimbalzare nello spazio sonoro. I volumi si abbassano, l’harmonium tace, ora la dolcezza del flauto traverso scombina, rovescia la costruzione fin lì creata. Il carattere immersivo dei tanti materiali messi in gioco in compartimenti stagno non funziona però, praticamente tutto si disperde, vola via senza farci capire dove la musicista americana volesse in realtà portarci.
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