Tell lotta contro i tablet

Scala: Rossini diretto da Mariotti con la regia di Chiara Muti

Guglielmo Tell
Guglielmo Tell
Recensione
classica
Teatro alla Scala, Milano
Guglielmo Tell
20 Marzo 2024 - 10 Aprile 2024

La prima volta del Guillaume Tell alla Scala fu nella stagione di carnevale del 1836 col titolo di Vallace e un libretto italiano di Calisto Bassi che riduceva la trama a una bega di successione al trono di Scozia. Ci mancava solo che all'epoca si vedessero degli svizzeri insorgere contro gli Asburgo per togliere il sonno all'arciduca Ranieri vicerè del Lombardo-Veneto. Dopo 188 anni l'opera di Rossini viene ora messa in scena al Piermarini per la prima volta nell'edizione originale francese, ma per un'altra beffa del destino in un allestimento che di nuovo ignora la storica ribellione dei cantoni elvetici. Chiara Muti, che firma la regia, ha dichiarato di essersi ispirata a Metropolis di Fritz Lang, le cui tracce tuttavie non sono troppo evidenti nelle scene di Alessandro Camera col palco quasi sempre al buio. Quindi colori grigiastri, totale assenza di paesaggi alpini, di bucoliche feste di paese, di selvagge armonie lacustri, nonostante le ripetute evocazioni nel libretto e ancora più spesso in partitura. Così come cadono nel vuoto le allusioni patriottiche e geografiche, e sono tante, una per tutte la conclusiva "Que la Suisse respire!" quando Guillaume trafigge Gesler.

Allo spaesamento Chiara Muti aggiunge alla vicenda una lettura "biblica", secondo la sua definizione, col protagonista in veste di guru che vuol scantare il popolo schiavo dal sonnambulismo indotto dalla tecnologia (vedi tablet e cellulari). Non a caso al coro vengono continuamente dati da agitare dei piccoli schermi accesi (alla faccia degli annunci in sala di spegnere i telefonini). Mentre lo spietato governatore Gesler perde ogni connotato storico per diventare una sorta di Belfagor con cappuccio e mantella rossa, presente anche nel balletto del terzo atto in compagnia di sacerdotesse della perversione, in una coreografia farraginosa che a detta della regista dovrebbe rappresentare i sette vizi capitali e si è conclusa coi buu del loggione. Tra le scene più stupefacenti lo stupro delle tre spose dopo il matrimonio del primo atto che accompagna il pas de six, l'apparizione come Cristo attempato del vecchio Melethal già morto (un caso di padre crocefisso più unico che raro), la citazione di Scoop di Woody Allen della morte con la falce sulla barca (ma senza possibilità d'ironia). Lo spettacolo comunque risulta coerente con la premessa edificante dello scontro fra virtù e vizio, ma rimane la sensazione che sia frutto di una scelta fatta a tavolino e alla fine prevale la ripetitività e la noia. Masse che fanno l'ammuina correndo avanti e indietro, quando non vengono picchiate dalla soldataglia, arie e duetti quasi sempre coi cantanti impalati in proscenio.

Allo spettatore, che non può rifugiarsi in qualche oasi di ambiguità o in qualche valletta alpina, non rimane che accettare la forzata dicotomia con la natura e la storia evocate da Rossini. Non così l'ha pensata però l'intrepido loggionista (lo stesso che il 7 dicembre aveva inneggiato all'Italia antifascista), che prima del secondo atto ha lanciato un grido sintatticamente complesso da riassumere con "Il maestro Mariotti ha fatto miracoli, ma con questa regia sarebbe meglio fare un'esecuzione da concerto". Subito seguito da applausi e da insulti dalla platea.

E che Mariotti sul podio abbia fatto miracoli è fuor di dubbio. Ha infuso una continua tensione all'esecuzione, calibrando ogni dettaglio, delicato o violento, avendo sempre ben chiata una struggente visione d'insieme. È come se un alone di malinconia accompagnasse anche i passaggi più spumeggianti della partitura. A ciò si aggiunga l'essere riuscito a rispettare l'identà rossiniana senza forzature verso i fermenti romantici alle porte né verso il passato neoclassico e a mantenere un totale equilibrio tra palcoscenico e buca d'orchestra. Esemplari i momenti sinfonici, dalle prime misure meditative dell'ouverture (per fortuna eseguita a sipario chiuso) al preludio del quarto atto coi fraseggi dei corni che annunciano il temporale e le pene di Arnold. Nelle cui vesti Dmitry Korchak ha dato prova di vocalità elegante e sicura, prendendosi il lusso di impeccabili veemenze tenorili del tutto adatte all'eroico personaggio. Al suo fianco e a pari merito Salome Jicia (Mathilde), a proprio agio col bel canto e assolutamente disinvolta in scena nell'esprimere i suoi tormenti;   come per altro la brava Catherine Trottmann (Jenny) e Géraldine Chauvet (Hedwige). Tre voci femmnili che raggiungono l'apice nel trio del quarto atto, quasi un dono di ringraziamento da parte del compositore che accompagna le tre con un sofisticato concertato di soli fiati, uno dei momenti clou di tutta l'opera e unico momento di serenità. Vero mattatore della serata è stato tuttavia Michele Pertusi nel ruolo del titolo che, nonostante abbia affontato una parte destinata a un baritono, ha perfettamente adattato la sua voce di basso senza la minima forzatura. La lunga esperienza del palcoscenico ha poi fatto il resto perché non solo ha dato spessore al protagonista, essere titubante più che eroico, ma la sua presenza ha animato molte situazioni statiche. Da citare infine l'ottima prova del coro scaligero, diretto da Alberto Malazzi, chiamato a coprire un ruolo da comprimario.

Al termine come prevedibile applausi per tutto il cast. ovazioni per Mariotti e insistiti buu per Chiara Muti, che elegantemente non ha fatto una piega ringraziando il pubblico.

 

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