Sigfrido si trova bene in Sicilia
Una buona direzione, un cast complessivamente valido e una regia un po' inconcludente per la seconda giornata del Ring catanese
Recensione
classica
Il Ring programmato coraggiosamente in una sola stagione e poi forzatamente diluito in più anni è giunto ala terza tappa col Siegfried. Affermare che questo Wagner siciliano non è immerso in oscure foreste nordiche e in nebbie nibelungiche ma è caldo e luminoso non è una scontata frase fatta ma è la constatazione che -favorita anche dall'acustica del Teatro Bellini, diversissima da quella di Bayreuth- la direzione di Zoltan Pesko non punta sull'inarrestabile fluvialità e sull'afflato epico dell'orchestra wagneriana ma è mossa, contrastata, colorata: soprattutto è analitica e trasparente, cosicché nel denso impasto orchestrale si scorge senza difficoltà il fitto lavorio contrappuntistico ed emergono le uscite solistiche dei singoli strumenti (buona sebbene non perfetta prestazione dell'orchestra, con una menzione speciale per oboe, fagotto e basso tuba). Mentre l'interpretazione di Pesko sta crescendo ad ogni ulteriore passo di questo viaggio wagneriano, Cesare Lievi è in un momento di stallo. La sua regia prosegue, come nelle prime due puntate della Tetralogia, su una via intermedia tra il recupero d'un Wagner tradizionale e una rilettura moderna: rispettando alcune didascalie dell'autore (il bosco, la fucina di Mime, perfino l'orso di Siegfried) e ignorandone altre (non ci sono né Fafner né la rupe fiammeggiante su cui dorme Brünnhilde, trasformata in un letto ottocentesco con baldacchino), vuole evidentemente proporre una versione del mito umanizzata e realistica, perfino comica e grottesca, ma la realizzazione è deludente, più abbozzata che compiutamente definita. Siegfried, che entra in scena con i pantaloni simili a jeans, il gilé di pelle, la zazzera biondastra e la pancia prominente di chi beve troppa birra, è una via di mezzo tra un motociclista del club dell'Harley-Davidson e un hooligan: contribuisce anche Jirki Niskanen, che non ha affatto un timbro eroico (però la voce è non solo salda e sicura ma anche più duttile dello heldtenor di vecchio stampo). Insomma Siegfried non è il superuomo sognato da Wagner ma è decisamente e coraggiosamente trasformato in un antipatico prepotente, come viene giudicato oggi da qualsiasi persona sensata. Questo Siegfried incontra nell'ultima scena una Brünnhilde (Caroline Thomas) molto affascinante, quando al suo risveglio effonde una riccioluta chioma bionda, che però delude un po', quando inizia a cantare. Ernst Dieter Suttheimer, con un corpo magro e appuntito e con una voce aguzza e penetrante, è perfetto per Mime. Questo nano fastidioso, ma in fin dei conti meno antipatico di Siegfried, è il personaggio più centrato dalla regia, il che lascia intendere che di momenti poetici ce ne sono pochini: ma almeno uno c'è ed è il dialogo tra Wotan (Albert Dohmen: voce piena e duttile ma interpretazione un po' superficiale) e Erda (Janet Collins: molto intensa, nonostante un registro acuto asprigno), che si svolge in un'oscurità primordiale da cui i due emergono appena appena. Con molti pregi e qualche limite in fin dei conti veniale, un Wagner così non avrebbe sfigurato in un teatro tedesco di buon livello.
Interpreti: Niskanen, Suttheimer, Dohmnen, Rasilainen, Hillebrandt, von Halem, Collins, Thomas, Hermann-Colombini
Regia: Cesare Lievi
Scene: Maurizio Balò
Costumi: Maurizio Balò
Orchestra: Orchestra del Teatro Bellini
Direttore: Zoltan Pesko
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