Sakamoto, ologramma di un mondo passato

A Pesaro la prima nazionale della performance multimediale Kagami, di Ryuchi Sakamoto

Kagami Sakamoto Pesaro
Recensione
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Auditorium Scavolini, Pesaro
Ryuchi Sakamoto, Kagami
30 Agosto 2024 - 12 Settembre 2024

Prima nazionale per Kagami, evento clou del cartellone di Pesaro 2024 Capitale italiana della cultura e progetto inedito che vede protagonista Ryuchi Sakamoto

A più di un anno dalla sua dipartita il compositore nipponico torna  sul palco grazie all’uso della tecnologia che fonde immagini tridimensionali con l’ambiente circostante, creando un evento in realtà mista, progettato prima della morte dallo stesso Sakamoto assieme a Todd Eckert, fondatore del collettivo newyorchese Tin Drum. 

Appena entriamo nell’Auditorium ci accolgono alcune foto in bianco e nero in formato gigante: due profili dell’autore, le sue mani sui fogli e brevi estratti video da Ryuchi Sakamoto: Coda, il documentario del 2017 di Stephen Nomura Schible uscito in contemporanea con l’album “async”. La prima immagine ricorda Perfect Days di Wim Wenders, con l’artista intento a registrare la pioggia stando in piedi su una scaletta in casa. Poi lo vediamo catturare con un microfono subacqueo il suono delle acque artiche (“sound fishing” lo chiama, sorridendo): fermare e mettere in musica ciò che passa e va, mettersi in ascolto della voce del mondo, della natura, attitudine questa che ha trovato poi un importante riflesso nelle sue posizioni ambientaliste, in modo particolare dopo il disastro di Fukushima. 

Dopo aver avuto modo di esplorare in libertà questa prima ampia stazione del percorso, veniamo introdotti nello spazio della performance. Il pubblico è fatto sedere a cerchio e viene munito di occhiali AR: al centro, una volta indossati i dispositivi, un cubo rosso all’interno di un mandala. I presenti sono liberi di alzarsi e muoversi liberamente nello spazio, con l’unica avvertenza di non entrare nel perimetro del mandala. 

Quando inizia lo spettacolo, al posto del cubo appare Sakamoto al piano a coda e quello a cui assistiamo è un vero e proprio recital pianistico della durata di un’ora circa. Oltre alla proiezione del musicista vediamo anche immagini di elementi naturali di vario tipo che cercano di dare una risposta visiva alle musiche languidamente classiche; un incedere lento, gentile, quel suo discorrere cortese e malinconico, elegiaco, che negli anni si è fatto archetipico. 

Tracce per film che evocano sia nei fan che negli ascoltatori occasionali ricordi e rimandi; a chi scrive ad esempio è tornato in mente, per non so quale associazione della mente, Dolls di Takeshi Kitano, sebbene lì la colonna sonora sia di un altro grande del Sol Levante, Joe Hisaishi: il collegamento si è attivato forse per l’atmosfera struggente del film e per il suo essere una lunga, commossa dichiarazione d’amore. 

Perché di questo si tratta, alla fine: amore, morte,ricordo,  assenza e  non sono altro che questo forse le composizioni del fu membro della Yellow Magic Orchestra, sospese da qualche parte tra inappuntabile rigore orientale, filosofia zen, eleganza formale e carillon impressionisti che a volte ricordano Satie o Debussy. 

Al netto dell’intatta bellezza delle composizioni, ciò che colpisce è la ricercata e dichiarata imperfezione della performance, oltre al fatto di porsi come uno statement sussurato, pronunciato a mezza voce: l’immagine dell’autore da subito non appare affatto reale, ma un po’ sgranata, quasi venisse proiettata da un dispositivo che si sta scaricando o, come è stato acutamente scritto da Andrzej Lukowski su Time Out, «immaginando in futuro esploratori che entrano nella lounge di una navicella abbandonata e si sorprendono nell’incontrare l’ologramma del pianista ancora funzionante”» 

Da “Energy Flow”, hit del 1999 il cui successo sorprese anche il suo autore a “Merry Christmas Mr. Lawrence”, da Forbidden Colors alla conclusiva “BB”, dove uno degli elementi centrali dello show, la morte, si riflette in altri specchi: la breve elegia, preceduta da un breve parlato del suo artefice, è stata scritta pochi minuti dopo aver appreso della morte di Bernardo Bertolucci, con cui com’è noto Sakamoto ha collaborato per L’ultimo imperatore del 1987. 

L’ologramma di un compositore scomparso ci racconta e ci suona un pezzo dedicato a un regista anch’egli scomparso. Cosa succede quando tutto finisce? Dove va la musica? Qual è il suo ultimo, intimo scopo? La forza, l’utilità forse dell’arte banalmente risiede nella sua capacità di lasciarci delle domande addosso. 

Al centro dell’anticamera, a terra, c’è questa frase del 2023 di Sakamoto: «Nella realtà esiste un io virtuale. Questo io virtuale non invecchia e continuerà a suonare il pianoforte per anni, decenni, secoli. Ci saranno allora degli esseri umani? I calamari che conquisteranno la terra dopo l’umanità mi ascolteranno? Cosa saranno i pianoforti per loro? E la musica? Ci sarà empatia? Un’empatia che abbraccia centinaia di migliaia di anni. Ah, ma le batterie non dureranno così a lungo.»

 

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