Quando il fisico ha un lato oscuro
La Staatsoper di Amburgo presenta la nuova opera di Unsuk Chin ispirata al rapporto fra Carl Gustav Jung e il Nobel per la Fisica Wolfgang Pauli

Il rapporto fra Carl Gustav Jung e Wolfgang Pauli è probabilmente uno dei più singolari nella storia della psicanalisi. Madre suicida e padre non proprio un modello di virtù, al culmine dei suoi successi professionali il futuro Premio Nobel per la Fisica si rivolge al luminare (e proprio su consiglio del padre) per curare le ferite profonde nell’anima che si manifestano in un rapporto a dir poco problematico con le donne. È il 1932 quando Pauli inizia il suo percorso analitico, inizialmente con Erna Rosenbaum, giovane assistente di Jung, che dopo cinque mesi si occuperà personalmente dell’illustre paziente. Non è solo l’inizio di un lungo rapporto che porterà il fisico teorico a ritrovare un equilibrio e lo stesso Jung a fare progressi significativi alle sue intuizioni teoriche grazie al tesoretto di 1300 sogni registrati con estrema precisione da Pauli nei due anni del proprio percorso terapeutico e nel quasi quarto di secolo successivo. Un patrimonio onirico così dettagliato che una studiosa di Jung arrivò a scrivere che “i lettori di Jung hanno più familiarità con l'inconscio di Wolfgang Pauli che con la sua vita da sveglio e i suoi risultati scientifici”.
A questa vicenda si ispira la compositrice Unsuk Chin per Die Dunkle Seite des Mondes (Il lato oscuro della luna), seconda opera che ha visto la luce alla Staatsoper di Amburgo dopo la brillante Alice in Wonderland composta per Monaco di Baviera poco meno di un ventennio fa. Se allora la compositrice si avvalse della collaborazione di un drammaturgo esperto come David Henry Wang per la stesura del libretto, qui fa tutto da sola e il risultato è assai meno convincente. Chin evita saggiamente il racconto biografico anche se non rinuncia al “coup de théâtre” con la rivelazione finale che il protagonista Keiron (evidentemente assonante con Cheiron, il centauro Chirone, figlio di Crono che i propri figli divorò, tanto per restare nel simbolico) sarebbe in effetti Pascheles, il cognome originario cambiato in Pauli dopo la conversione al cattolicesimo della famiglia. Per il resto i riferimenti alla figura di Pauli si sprecano, a partire dal suo sprezzante senso di superiorità nella comunità scientifica, alla doppia vita di autorevole uomo di scienza di giorno e frequentatore notturno di sordidi locali e all’infelice relazione tenuta segreta con Miriel, pervicacemente rifiutata ma da lui finanziata generosamente nella sua dipendenza dalla morfina, fino all’incontro con il guaritore Astaroth, un ciarlatano assoluto che finirà per provocare discredito sullo scienziato Keiron.
Naturalmente è soprattutto la dissociazione psichica di Keiron/Pauli il motivo portante di un’architettura drammaturgica appesantita da prolissità, ripetizioni e soprattutto da un didascalismo che alla lunga indebolisce fatalmente le elevate ambizioni di questo lavoro. Se l’Unsuk Chin drammaturga zoppica, l’Unsuk Chin compositrice si conferma raffinatissima alchimista di una timbrica spesso esoterica dispiegata in un iridescente catalogo di combinazioni sonore concepite per un variegato e vasto strumentario, che la direzione di Kent Nagano rende al meglio alla testa della Philharmonisches Staatsorchester Hamburg, impegnata in una prova straordinaria in tutte le sue sezioni (e un plauso speciale va soprattutto alle sofisticatissime percussioni). Convince meno la scrittura vocale, perché soffre di più le lungaggini del libretto che nemmeno la molteplicità dei registri impiegati (dal declamato, allo “Sprechgesang”, alle accensioni liriche fino alle varianti buffe, già impiegate in Alice ma qui meno efficaci). L’impegno di tutti gli interpreti è comunque lodevole a cominciare dal protagonista Thomas Lehman, un Kieron che si ammira più per la resistenza (è praticamente sempre in scena nelle tre ore e più dello spettacolo) che per varietà espressiva, e da Bo Skovhus, un istrionico Astaroth di forte presenza scenica. Le pagine più liriche sono affidate alla marcante Miriel di Siobhan Stagg e alla teatralissima Anima di Kangmin Justin Kim, autentica primadonna soprano nel mondo onirico, più che agli enigmatici monosillabi della ragazza luminosa di Narea Son. Ben caratterizzato il trio di colleghi umiliati e offesi dal genio di Kieron, William Desbiens (Dr. Pulski), Karl Huml (Dr. Raubenstock) e Jürgen Sacher (Dr. Spinberg), che avranno la loro vendetta nel finale, come il giovane assistente Cornelius di Aaron Godfrey-Mayes. Divertente ma piuttosto superfluo (per eccesso di presenze oniriche) l’essere di luce di Andrew Dickinson. Suggestivi gli interventi del Coro della Staatsoper di Amburgo, specialmente negli impalpabili sfondi sonori degli inserti onirici e nei popolareschi assiemi dei loschi lupanari visitati da Kieron.
Ricca di idee e di immagini la produzione firmata dal collettivo irlandese dei Dead Centre (ossia Ben Kidd e Bush Moukarzel), che deve farsi carico di una sintesi credibile dell’eccesso di spunti drammaturgici. Se un certo colore storico anni Trenta lo danno gli eleganti costumi di Janina Brinkmann, punta all’astratto l‘agile scenografia di Jeremy Herbert arricchita dalle elaborate luci di James Farncombe e soprattutto dalle proiezioni video, spesso live, di Sophie Lux. Molto agili i passaggi fra le geometrie scientifiche del mondo reale di Kieron e le atmosfere impalpabili del suo universo onirico come anche le ciarlatanesche psichedelie di Astaroth (che rievocano l’immaginario filmico di Jodorowski).
Pubblico scarso all’ultima delle cinque recite in programma ma generoso di applausi per tutti.
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