Per fortuna le celebrazioni picciniane non sembrano avere fine. Dopo l'orgia di convegni, mostre, concerti, opere e pubblicazioni di vario genere, Bari continua a rendere omaggio a Niccolò Piccini anche oltre il fatidico 2000, anno del bicentenario della morte del compositore. Ecco allora che dal cilindro della produzione del Petruzzelli fuoriesce un'inaspettata "Didon" che torna alle scene per la gioia di musicologi e melomani. Merito non ultimo è dello studioso inglese Ernest Warburton che dopo avere liquidato l'opera omnia di Bach voleva cimentarsi con quella di Piccinni: quando è morto stava ultimando l'edizione critica di "Didon" che il direttore sudafricano Arnold Bosman è riuscito a recuperare e a resuscitare. Celebratissima al momento della "prima" nell'ottobre 1783 a Fontainebleau e per la ripresa parigina di un paio di mesi dopo, "Didon" si rivelerà l'opera piccinniana dalla fortuna più solida e durevole tanto da resistere nei teatri francesi ancora in pieno Ottocento. La produzione di Bari ne rivela le ragioni: scritta da un compositore di "scuola" napoletana ormai da più di sei anni a Parigi, "Didon" è una perfetta sintesi di procedimenti drammaturgici e musicali tanto francesi quanto italiani. Purtroppo vuoi per scelta estetica vuoi probabilmente per penuria di fondi, a questo allestimento è mancato proprio uno degli ingredienti essenziali della "majesté" della tradizione della tragédie-lyrique francese: lo sfarzo abbagliante della "mise en scène". Pier Paolo Pacini opta per l'essenzialità delle scene: un obelisco che da un atto all'altro cambia di posizione avrebbe il compito di rappresentare, per ammissione del regista, "l'impossibilità di Didone a confrontarsi con il suo passato". Difficile capirlo senza leggere preventivamente le note di Pacini. E è sufficientemente sfruttato come espediente perché ci si possa lasciar soprendere. E poi perché concentrare gran parte dell'azione sul lato sinistro del palcoscenico? Tale scelta ha il difetto di sottrarre la protagonista rispetto al pubblico ad una posizione frontale che sarebbe meglio convenuta al rango di regina. Certo è che la vera star della serata è il direttore Bosman. Fa miracoli con un'orchestra i cui violini arrancano nei passaggi virtuosistici e i fiati penano nelle ampie pagine scritte nel più tradizionale stile francese. Ricco di idee e di coscienza stilistica, Bosman fa quel che può. Il cast vocale è dominato dal "cattivo" Iarbe di Davide Damiani. Il soprano Sibongile Mengoma ha il pesante compito di raccogliere l'eredità della Saint-Huberty: purtroppo la sua recitazione non è sempre efficace, e vocalmente non riesce a fare dimenticare un certo timbro nasale. Un curatissimo libretto di sala con il fac-simile dell'edizione originale del libretto e un ampio apparato iconografico impreziosisce questa produzione del Petruzzelli. Che Gluck abbia qualcosa da temere dalla Piccinni renaissance?
Interpreti: Mengoma, Didon
Galvez-Vallejo, Enée
Damiani, Iarbe
Di Bari, Elise
Girardi, Phénice
Signorile, Araspe/Ombra
Regia: Pier Paolo Pacini
Scene: Pier Paolo Pacini
Costumi: Tommaso Lagattolla
Corpo di Ballo: Compagnia Altradanza
Coreografo: Mimmo Iannone
Orchestra: Orchestra del Teatro Petruzzelli di Bari
Direttore: Arnold Bosman, maestro concertatore e direttore
Coro: Coro del Teatro Petruzzelli di Bari
Maestro Coro: Elico Orciuolo