Parigi: una telecamera per Beatrice di Tenda

Nuovo allestimento di Peter Sellars che per la prima volta dirige un’opera italiana

Beatrice di Tenda (Foto Franck Ferville/OnP)
Beatrice di Tenda (Foto Franck Ferville/OnP)
Recensione
classica
Opéra Bastille, Parigi
Beatrice di Tenda
09 Febbraio 2024 - 07 Marzo 2024

Entra in repertorio all’Opéra de Paris Beatrice di Tenda di Bellini con un nuovo allestimento firmato dall’americano Peter Sellars, che per la prima volta dirige un’opera italiana, e ottime voci, ma il risultato delude un po’. Cinque degli interpreti principali debuttano nel ruolo: il soprano americano Tamara Wilson come Beatrice; il baritono hawaiano Quinn Kelsey veste i panni del duca di Milano Filippo Visconti; il tenore samoano Pene Pati nella parte di Orombello, segretamente innamorato di Beatrice; suo fratello, pure tenore, Amitai Pati, è Anichino; il giovane soprano Theresa Kronthaler è Agnese, segretamente innamorata di Orombello e amata altrettanto segretamente dal Duca. Tutti hanno belle voci e ottima tecnica ma, pur avendo tutti una dizione curata, ogni tanto qualcuno perde quella melodiosità della lingua italiana tanto necessaria al Belcanto e alcune vocali non sono ben scolpite. La direzione del maestro Mark Wigglesworth non riesce poi a trovare una giusta misura, una chiave di lettura che ben colleghi i momenti di riflessione intima, i famosi archi musicali lunghi e languidi tipici di Bellini, con i momenti d’impeto e di scontro che nel libretto di Felice Romani, caratterizzato da tradimenti, rivolte e descrizioni di torture violente, sono tanto numerosi. La prestazione dell’Orchestra è ricca però di assai godibili interventi delle parti soliste. Ottima anche la prestazione del Coro dell’Opéra national de Paris, ben preparato da Ching-Lien Wu, la voce del popolo è in quest’opera tragica molto presente e il regista Sellars lo ha ben messo in evidenza, sin dal coro d’apertura e con inaspettati interventi dalla sala. Ma da Sellars, famoso per le sue scelte innovative ed anticonformiste, ci si aspettava di più, l’avere trasportato la vicenda all’oggi, con telecamere e monitor in scena, non è idea originale e nemmeno sviluppata in modo innovativo. La scenografia di George Tsypin trasforma alberi e cespugli in elementi geometrici decorati da motivi floreali, che richiamano i fiori che evoca Beatrice in diverse sue arie, non cambiano nel secondo atto durante il processo e le torture, a marcare la differenza solo con le efficaci luci di James F. Ingalls, che passano dal verde al rosso e si fanno più cupe, il risultato è un po’ confuso, sopratutto nel secondo atto. I costumi di Camille Assaf, frequente collaboratrice del regista, sono poi banali: il solito doppiopetto per il tiranno; una tunichina semplice e spoglia per Beatrice; chiodi neri per i soldati, oltretutto un po’ ridicoli con mitragliette tipo giocattolo; abiti sottoveste o vestiti, tutti pure neri, per il coro; il torturato Orombello pure un po’ ridicolo che arriva tutto ricoperto di sangue con una stampella, poi sostituita dalla solita sedia a rotelle, ma amorevolmente assistito da un’infermiera;  e così la tragicità della situazione si perde per mancanza di verosimile. I momenti migliori, senza dubbio quelli regalati da Tamara Wilson che si fa ammirare già dalla sua cavatina “Respiro io qui...fra queste piante ombrose” e poi trionfa, gratificata da lunghi applausi, nel finale con la sua famosa “Deh! Se un'urna è a me concessa”. All’inizio del primo atto è una bella scoperta la voce del soprano Theresa Kronthaler come Agnese, che ben duetta con il Duca, un Kelsey che però molto ricorda Rigoletto, ruolo che ha cantato tante volte, ma nel secondo atto è più nel personaggio. Prestazione altalenante anche per Pene Pati, nel suo caso invece migliore nel primo tempo, nel secondo esagerando come torturato. Alla fine comunque lunghi applausi per tutti gli interpreti, il regista non è uscito in scena essendo dovuto ripartire. Una coproduzione con il Liceu di Barcellona.

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