A Parigi Rattle e Sellars per Janacek
Successo per La piccola volpe astuta alla Philharmonie
L’attività stagionale della Philharmonie de Paris-Cité de la Musique si è conclusa con un week-end allungato, il cui ultimo atto ha visto la realizzazione in forma semi-scenica di La piccola Volpe astuta di Janáček. Com’è noto, pur annoverando molte voci bianche tra gli interpreti – individuali e collettivi – in scena, e pur mettendo al centro dell’intreccio il mondo della Natura con suoi rappresentanti più o meno metaforici, l’opera non è inquadrabile in un ‘teatro musicale per ragazzi’ settoriale. Il confronto-scontro col mondo degli umani, il ribaltamento della prospettiva tutt’altro che fiabesco, e invece votato al panismo vitale di quei mondi, le implicazioni socio-antropologiche dei personaggi, mirano a un orizzonte di senso complesso e filosofico, il cui emblema è la conclusione del lavoro: il Guardiacaccia crede di riconoscere – a distanza di molti mesi – un cucciolo della Piccola Volpe che lo ha abbindolato ma pure ‘sedotto’, ma non arriva a pensare che il ranocchio che lo sveglia sia il nipote di quello a inizio-azione. Il tempo della Natura sovrasta dunque l’uomo, sia nell’inesauribile e immanente energia (‘al di là del bene e del male’), sia nel procedere con cicli suoi propri, che perfino una persona avvezza a viverci dentro non è in grado di cogliere appieno;. e che il Guardiacaccia arrivi a questa scena con gesti stanchi e ‘invecchiati’ accentua, nella regia, lo sfasamento tra le due dimensioni.
Delimitato il palcoscenico sul retro dal grande schermo per proiezioni, posizionatagli davanti l’ampia orchestra, poco spazio rimaneva a Sellars per muovere gli interpreti: il regista inglese l’ha fatto su una non ampia pedana, abolendo i costumi (una limitazione perigliosa in un’opera del genere, in cui numerosità di personaggi e multivalenza di interpreti richiedono in condizioni simili uno sforzo supplementare e previo d’informazione sulla trama), consentendo anche al direttore di dirigervi (perlopiù dal margine, a volte fin dentro), e impiegando solo qualche oggetto di scena. La componente visuale fondamentale è stata perciò il fondale-video, sul quale l’effetto-ribaltamento è evidente: se si eccettua un comico primo piano dell’interprete eponima che divora spiedini di pollo (ovvero i malcapitati e indolenti gallinacei di fine primo atto), l’uomo era espunto dalle immagini, o vi compariva sfocato – come visto dall’occhio di alcuni animali, o nel suo anonimo ambiente odierno di vita collettiva, mentre tutti gli altri esseri venivano gratificati di primi piani assai espressivi e antropomorfi.
Il focus della serata è finito dunque sulla qualità musicale dell’esecuzione: tra il versante ritmico e quello timbrico-armonico di questa notevole partitura, la lettura di Rattle è sembrata polarizzarsi soprattutto sulle qualità della seconda dimensione, sicché gli anticipi nelle informazioni gestuali sono apparse tutte orientate alla modellazione plastica del suono come tale. E il suono della London Symphomy Orchestra ha mostrato sua volta le sue qualità di morbidezza e suadenza, pastosità e luminosità, insomma di leggerezza – non priva, nei momenti opportuni, di precisione scultorea – che ha potuto combinarsi al meglio con le voci, poste tutte davanti all’organico (eccetto il Coro maschile nel finale del 2° atto, schierato su una balconata). Le voci, appunto, sono apparse inappuntabili, sicure ed espressive, anche quelle dei giovanissimi interpreti dalle voci bianche.
Sala piena e molto festeggiante, per una conclusione d’annata in chiave novecentesca che sarebbe auspicabile si ripeta ancora.
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