A Parigi Rattle e Sellars per Janacek

Successo per La piccola volpe astuta alla Philharmonie

La piccola Volpe astuta
La piccola Volpe astuta
Recensione
classica
Philharmonie de Paris, Salle Pierre Boulez
La piccola Volpe astuta
02 Luglio 2019

L’attività stagionale della Philharmonie de Paris-Cité de la Musique si è conclusa con un week-end allungato, il cui ultimo atto ha visto la realizzazione in forma semi-scenica di La piccola Volpe astuta di Janáček. Com’è noto, pur annoverando molte voci bianche tra gli interpreti – individuali e collettivi – in scena, e pur mettendo al centro dell’intreccio il mondo della Natura con suoi rappresentanti più o meno metaforici, l’opera non è inquadrabile in un ‘teatro musicale per ragazzi’ settoriale. Il confronto-scontro col mondo degli umani, il ribaltamento della prospettiva tutt’altro che fiabesco, e invece votato al panismo vitale di quei mondi, le implicazioni socio-antropologiche dei personaggi, mirano a un orizzonte di senso complesso e filosofico, il cui emblema è la conclusione del lavoro: il Guardiacaccia crede di riconoscere – a distanza di molti mesi – un cucciolo della Piccola Volpe che lo ha abbindolato ma pure ‘sedotto’, ma non arriva a pensare che il ranocchio che lo sveglia sia il nipote di quello a inizio-azione. Il tempo della Natura sovrasta dunque l’uomo, sia nell’inesauribile e immanente energia (‘al di là del bene e del male’), sia nel procedere con cicli suoi propri, che perfino una persona avvezza a viverci dentro non è in grado di cogliere appieno;. e che il Guardiacaccia arrivi a questa scena con gesti stanchi e ‘invecchiati’ accentua, nella regia, lo sfasamento tra le due dimensioni.

Delimitato il palcoscenico sul retro dal grande schermo per proiezioni, posizionatagli davanti l’ampia orchestra, poco spazio rimaneva a Sellars per muovere gli interpreti: il regista inglese l’ha fatto su una non ampia pedana, abolendo i costumi (una limitazione perigliosa in un’opera del genere, in cui numerosità di personaggi e multivalenza di interpreti richiedono in condizioni simili uno sforzo supplementare e previo d’informazione sulla trama), consentendo anche al direttore di dirigervi (perlopiù dal margine, a volte fin dentro), e impiegando solo qualche oggetto di scena. La componente visuale fondamentale è stata perciò il fondale-video, sul quale l’effetto-ribaltamento è evidente: se si eccettua un comico primo piano dell’interprete eponima che divora spiedini di pollo (ovvero i malcapitati e indolenti gallinacei di fine primo atto), l’uomo era espunto dalle immagini, o vi compariva sfocato – come visto dall’occhio di alcuni animali, o nel suo anonimo ambiente odierno di vita collettiva, mentre tutti gli altri esseri venivano gratificati di primi piani assai espressivi e antropomorfi.

Il focus della serata è finito dunque sulla qualità musicale dell’esecuzione: tra il versante ritmico e quello timbrico-armonico di questa notevole partitura, la lettura di Rattle è sembrata polarizzarsi soprattutto sulle qualità della seconda dimensione, sicché gli anticipi nelle informazioni gestuali sono apparse tutte orientate alla modellazione plastica del suono come tale. E il suono della London Symphomy Orchestra ha mostrato sua volta le sue qualità di morbidezza e suadenza, pastosità e luminosità, insomma di leggerezza – non priva, nei momenti opportuni, di precisione scultorea – che ha potuto combinarsi al meglio con le voci, poste tutte davanti all’organico (eccetto il Coro maschile nel finale del 2° atto, schierato su una balconata). Le voci, appunto, sono apparse inappuntabili, sicure ed espressive, anche quelle dei giovanissimi interpreti dalle voci bianche.

Sala piena e molto festeggiante, per una conclusione d’annata in chiave novecentesca che sarebbe auspicabile si ripeta ancora.

 

 

 

 

 

 

 

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