Il Mariinski di è sbarcato a Parigi dove ha offerto una bellissima produzione di "Eugenio Oneghin". Ovviamente il trasloco (momentaneo) è avvenuto con armi e bagagli: orchestra, troupe, coro e l'immancabile Valery Gergiev. Da une tournée all'altra, il teatro di San Pietroburgo passa sempre meno tempo in casa. E in molti cominciano a chiedersi se tale istituzione può ancora essere considerata come depositaria di una tradizione illustre che risale ai fasti ottocenteschi. Il dubbio è legittimo in un'era in cui tempo e spazio hanno rapidamente mutato le regole del gioco. Forse bisogna accettare l'idea che il Mariinski è semplicemente un teatro che funziona capace di proporre buona musica grazie a seri professionisti. Senza necessariamente scomodare gli avi. Mutatis mutandis non è d'obbligo andare al San Carlo per ascoltare "Lo frate 'nnamorato", né alla Scala per "Nabucco". Comunque, anche la direzione del Marrinski deve essere cosciente del fenomeno delle miscele culturali: non è un caso che per questo "Oneghin" abbiano fatto ricorso a due registi, uno di Parigi (Patrice Caurier) e l'altro di Anversa (Moshe Leiser) , che hanno dichiarato, nero su bianco, che la loro messinscena non era per i russi. E affermano: "La nostra regia è tradotta in base alla nostra sensibilità". Anche se poi si affrettano ad aggiungere: "Ma è sicuro che quest'opera resta 'identitaria' per i russi". Caurier e Leiser scelgono la strada dell'introspezione psicologica. Rifiutano categoricamente ogni forma di attualizzazione dell'opera. Scomodano pure la corrispondenza di Cajkovskij per ribadire il loro principio di attenere ad un seguito di "quadri" (sul modello del romanzo di Puskin) con scene e costumi dell'epoca. In realtà, la messinscena dello Châtelet resta estremamente parca: forse non è per i russi, ma è sicuramente per i parigini. Niente lussi eccessivi, ma solo modeste pareti bianche modulabili secondo le situazioni. Meritoria la scelta di non fare reincontrare Tatiana e Eugenio in un salone, ma in strada, fuori dal palazzo: forse un'allusione al rigetto di un rapporto che non può essere assimilato (e dunque accettato) dalla società. Il resto lo fanno essenzialmente i cantanti. Domina la produzione Irina Mataeva dotato di potenza, timbro soave e tecnica sicura, associati ad una certa disinvoltura sul palcoscenico. E, ovviamente, la scena della lettera resta forse il momento più indimenticabile. Vladimir Moroz è il suo degno compagno. Applauditissimo pure il Lenski del tenore Evgueni Akimov che commuove al momento del duello. Gergiev adotta tempi lenti se non lentissimi. Forse sa di poter contare sulla seduzione dei colori della sua orchestra. Per il piacere dell'udito l'effetto è riuscito, ma drammaturgicamente l'opera richiederebbe una lettura che cede meno agli indugi. Russa o meno, questa produzione del Mariinski allo Châtelet resta uno dei momenti più alti della stagione.
Interpreti: Vladimir Moroz, Eugenio Oneghin; Irina Mataeva, Tatiana; Daniil Shtoda, Lenski; Ekaterina Sementchouk, Olga; Mikaïl Kit, Gremine; Svetlana Volkova, Larina; Olga Markova-Mikhaïlenko, Filippievna; Jean-Paul Fouchécourt, Triquet; Mikhaïl Petrenko, Capitano
Regia: Patrice Caurier e Moshe Leiser
Scene: Christian Fenouillat
Costumi: Agostino Cavalca
Orchestra: Orchestra del Teatro Mariinski di San Pietroburgo
Direttore: Valery Gergiev
Coro: Coro del Teatro Mariinski di San Pietroburgo
Maestro Coro: Andreï Petrenko