Norma alla Scala, quarantotto anni dopo
Luisi sul podio, regia di Py
Norma di Bellini è tornata alla Scala dopo un’assenza di quarantotto anni e da un certo punto di vista è la produzione più coraggiosa dell’anno, perché se fai Norma alla Scala è praticamente certo che ti fischiano: tutto sta nel come, dice la Marescialla nel Rosenkavalier, e alla luce della sua saggezza possiamo dire che è andata meglio di quanto non fosse lecito sperare.
C’è una parte di verità nel temere i loggionisti perché ‘vedovi’ (della Caballé, della Gencer, forse ancora della Callas) e quindi ostili a priori, ma anche una parte di idée reçue che non regge alla prova dei fatti. Davanti a Marina Rebeka (Norma) anche lo spettatore più prevenuto fatica a non arrendersi. Le sue capacità vocali, ormai note e indiscutibili, le hanno permesso di delineare un personaggio che manifesta una linea esteriore di saldezza classica (si nota molto nelle colorature, simbolo tradizionale di maestà e potere, legate con un controllo impeccabile e senza eccessi) sotto la quale covano incrinature affioranti qua e là in variazioni dinamiche che portano sovente il canto a smorzature, pianissimi, sottovoce e/o subitanee esplosioni d’ira, di tenerezza, di pentimento, di amore, e mille e mille sfaccettature che Rebeka ha saputo rendere con straordinario equilibrio, senza che mai l’una prevalesse sull’altra, ma sempre rivelando la compresenza di spinte emotive contrastanti, che è poi quel che fa di Norma Norma. Gli irriducibili fischiatori erano messi in conto, ma erano quattro gatti in un intero teatro che applaudiva.
Chi ha avuto un successo unanime è stata Vasilisa Berzhanskaya (Adalgisa), forse perché, perdonerete la banalità, ha una voce meravigliosa, e qua c’è poco da argomentare. Se questo si unisce a una straordinaria intelligenza di interprete, in grado di rivaleggiare con Rebeka (!) sul suo stesso terreno quanto alla resa di oscillazioni emotive, il risultato non può che essere, come è stato, trionfale. Per carità, il confronto con due fuoriclasse era impari, ma Freddie De Tommaso non ha mostrato, a nostro avviso, altrettante capacità di modellare duttilmente la voce, e il risultato è stato un Pollione un po’ incolore, specie nella zona centrale del registro; ma almeno gli acuti squillavano. Oroveso era un mostro sacro come Michele Pertusi; quanto ai comprimari, alle volte rimpiangevi che cantassero così poco.
Altra banalità: il Coro della Scala fa spavento per quanto è bravo. Meno banale, o meglio, inaspettato dire che Fabio Luisi ha diretto Bellini con un’ottima elasticità nelle fluttuazioni dei tempi, lui che in altri repertori ci era sembrato dirigesse con una certa rigidezza agogica. È stato bello ricredersi, e non dimenticheremo il rallentando estenuante, sovraccarico di tensione, sulla strofe di Adalgisa «E tu pure, ah! tu non sai» nel duetto con Pollione (che oltretutto Berzhanskaya ha cantato con una mezza voce da brividi). Ci è sembrato, tuttavia, che la distribuzione dei pesi orchestrali pendesse leggermente a favore di legni e soprattutto ottoni, che in qualche occasione coprivano col loro accompagnamento la melodia degli archi; a meno che non fosse una scelta voluta, ma non sapremmo rispondere al perché.
Il regista, Olivier Py, è stato fischiato a morte, e a questo perché c’industriamo a rispondere. La sua non è certo la prima regia alla Scala che cambia luogo e tempo e aggiunge cervellotici e inutili ingredienti alla drammaturgia, e regie siffatte si pigliano puntualmente i regolari fischi. La ragione della violenza e, quel che più sorprende, dell’unanimità della contestazione, si può forse spiegare con una reazione di pancia al fatto che il momento più imbarazzante fosse proprio piazzato alla fine. Se è vera la legge della pistola di Čechov, è vera anche la legge del fuoco di Čechov, e se tu mi mostri prima il sagomato di un fuoco, e poi un fuoco vero che arde per un po’ in scena, questo fuoco prima o poi dovrà bruciare chi il libretto vuole condannati al rogo. Norma e Pollione salgono al tempio e un plotone di esecuzione li fucila. Estinto l’ultimo accordo, una voce discende dal loggione: è la voce di Franti, «quell’infame», che sonoramente ride.
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