Nella trappola degli Usher
Lo Staatstheater di Mainz presenta un nuovo allestimento di The Fall of the House of Usher di Philip Glass dal celebre racconto di Edgar Allan Poe

Cantanti e spettatori intrappolati insieme in un mondo da cui non possono fuggire. È l’idea di K.D. Schmidt, regista del nuovo allestimento visto allo Staatstheater di Mainz, per far compartecipi tutti i soggetti nell’incubo letterario immaginato da Edgar Allan Poe nel 1839 e abilmente trasformato in libretto da Arthur Yorinks per l’opera da camera di Philip Glass. Dal debutto americano nel 1988, accolto piuttosto positivamente dalla critica, questo lavoro si è ritagliato un profilo di piccolo classico contemporaneo, complice una musica ipnotica e ripetitiva che si sposa benissimo con l’atmosfera gotica e allucinata del racconto di Poe.
Se il libretto insiste soprattutto sugli aspetti psicologici e simbolici della vicenda, rimane sostanzialmente intatta la trama del racconto, che vede William accorrere nella sinistra dimora dell’amico Roderick Usher, ultimo rampollo di una dinastia prossima all’estinzione e vittima di una oscura malattia come l’ectoplasmatica sorella Madeline. Dopo la presunta morte della sorella, Roderick la seppellisce nella cripta di famiglia ma lei è ancora viva e, in una scena drammatica, esce dalla tomba per trascinarci anche il fratello e provocando subito dopo il crollo anche simbolico della casa.

Per accentuare la dimensione claustrofobica dell’opera, a Mainz il pubblico è invitato a prendere posto sulle tribune sistemate sui tre lati del palcoscenico del Großes Haus dello Staatstheater, come per entrare direttamente nel cuore dell’azione e abbattere la distanza anche fisica con gli interpreti. Questi agiscono sulla labirintica struttura metallica immaginata dallo scenografo Matthias Werner come casa degli Usher, fatta di diversi piani e scalette e montata su una piattaforma girevole in costante movimento per consentire al pubblico di vedere questo scheletro di edificio da ogni angolazione ma anche per accentuare il senso di vertigine. Nebbia, violenti cambi di luce e effetti cromatici (immaginati da Ulrich Schneider) con le spettrali immagini rimandate dai numerosi schermi disseminati attorno e all’interno della scena contribuiscono a creare un’esperienza di ascolto (e non solo) piuttosto singolare e coinvolgente. Lo spettacolo è ben condotto e senza eccessiva insistenza sugli aspetti più morbosi, che restano appena suggeriti come del resto nel racconto originale, anche se il brivido resta tutto nella testa dello spettatore.

Le ripetizioni incessanti dall’effetto ipnotico, i ritmi ostinati e le armonie elementari della scrittura di Philip Glass vengono disciplinatamente somministrati dai bravi strumentisti della Philharmonisches Staatsorchester di Mainz, sistemati sotto l’arco di proscenio e guidati dalla metronomica precisione e gusto cinematografico nella tensione montante da Paul-Johannes Kirschner. Una prova d’attore del tutto convincente la offre soprattutto il William di Brett Carter, ma si difendono piuttosto bene anche Mark Watson Williams come Roderick e Maren Schwier come Madeline, che Glass fa esprimere solo con vocalizzi. Doğuş Güney come servitore e Georg Schießl come medico sono efficaci presenze inquietanti anche (o forse soprattutto) per i costumi e le bizzarre parrucche pensati per loro da Lucia Vonrhein.
Tutto esaurito come le altre recite in programma fino a giugno. Un successo.
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