Un Don Giovanni infantile tra i ruderi dell’antica Roma

Vasily Barkhatov, regista sulla cresta dell’onda, interpreta a modo suo il capolavoro di Mozart

Don Giovanni (Foto Fabrizio Sansoni)
Don Giovanni (Foto Fabrizio Sansoni)
Recensione
classica
Roma, Basilica di Massenzio
Don Giovanni
20 Luglio 2025 - 25 Luglio 2025

Per Don Giovanni  il Caracalla Festival si è trasferito alla Basilica di Massenzio, un altro suggestivo luogo della Roma imperiale a pochi passi dal Colosseo, grandioso ma non così enorme come le Terme di Caracalla e quindi più adatto ad un’opera mozartiana. Questa volta Damiano Michieletto, a cui il Teatro dell’Opera si è rivolto per programmare la sua stagione estiva, ha scelto come regista il russo Vasily Barkhatov, un nome ancora non molto noto qui in Italia, dove si è parlato di lui solo per il putiferio suscitato dalla sua Turandot da incubo al San Carlo nel 2023. E sicuramente se ne riparlerà quando si vedrà la sua regia per Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk, che inaugurerà la stagione della Scala il prossimo 7 dicembre. 

Barkhatov ha superato i quarant’anni, ma in fotografia sembra un simpatico liceale. E sembrerebbe che sia regredito ancora più indietro fino all’infanzia con una regia che questa volta sembra non esattamente un incubo come nel caso della Turandot  ma il sogno di un bambino. Genitori e nonni guarderebbero con un sorriso le sue idee colorate, fantasiose e sconclusionate, come quei pelouche grandi quanto una persona. Ma il pubblico si dimostra meno affettuoso.

Difficile dare in qualche riga un’idea di questo spettacolo. Coma spiega Barkhatov stesso, il “suo” Don Giovanni è un uomo ormai anziano, che ancora tenta senza troppa convinzione qualche patetica avance con le ragazze ed è inevitabilmente respinto. Non è un’idea non nuova e, come si dice, “ci può stare”. Ma l’idea base è un’altra: il Commendatore è giovane, molto più giovane di Don Giovanni e potrebbe essere suo figlio. Invece, dopo essersi a lungo scervellati, si arriva a capire che in realtà è il padre di Don Giovanni, morto prematuramente quando il figlio era un bambino e stava insieme a lui al Luna Park. E nell’ultima scena (l’opera finisce con la morte di Don Giovanni, perché si è scelta la versione di Vienna) Don Giovanni è di nuovo al Luna Park, insieme al padre e a una donna che si immagina essere la madre, siede tra loro due su una panchina e tutti mangiano popcorn e zucchero filato. Alla fine, non sprofonda tra le fiamme ma sale con i genitori sulla ruota panoramica, che domina la scena fin dall’inizio dell’opera, sublimando così il trauma della morte del padre. Non sappiamo se da bambino Barkhatov abbia avuto un trauma del genere, ci auguriamo di no.

Forse questa lettura del Don Giovanni potrebbe anche essere poetica ma - è superfluo dirlo - è totalmente estranea a quel che intendevano Da Ponte e Mozart, che di Don Giovanni hanno fatto l’immagine protoromantica non tanto del seduttore quanto del libertino, una figura demoniaca che rifiuta ogni regola morale e sociale. Ma la cosa più grave è che Barkhatov va a ruota libera, senza un coerente progetto drammaturgico, affastellando un cumulo di dettagli fuori controllo solamente perché li trova carini, divertenti: che caro bambino, ma forse un po’ troppo capriccioso.

Per completezza dobbiamo dire che l’opera inizia e si conclude nel Luna Park, che però sparisce nel buio in tutta la prima parte del secondo atto, quando la scena è occupata da grandi specchi rotanti illuminati da lampi di luce abbaglianti, che rendono bene la labirintica notte in cui i personaggi si nascondo, si travestono, si confondono, s’incontrano, si perdono. Peccato che anche qui la regia sia piuttosto sconclusionata.

Coerente è invece la direzione di Alessandro Cadario, equilibrata, limpida, sicura, con i tempi giusti e i giusti equilibri tra voci e orchestra e tra le varie sezioni dell’orchestra stessa, da cui ottiene un’ottima prestazione, nonostante siano molti gli strumenti “aggiunti”, poiché il grosso dell’orchestra in questi stessi giorni è impegnato nella Traviata.  Per un giovane (ma non più giovanissimo) un Don Giovanni  all’aperto è un severo esame, che Cadario supera a pieni voti. Va notato che la sua direzione non poteva non tener conto della regia: per esempio, se la cena di Don Giovanni si svolge su una panchina, con il Commendatore e la moglie che mangiano popcorn insieme a lui, è gioco forza attenuare un po’ la drammaticità della musica scritta da Mozart per una delle pagine più straordinarie di tutta la storia dell’opera, che altrimenti stonerebbe con la scenetta che si svolge sul palcoscenico (ovviamente è quel che avviene sul palcoscenico che in realtà stona assurdamente con la musica). Il regista è anche responsabile dell’adozione della versione di Vienna, senza l'aria di Masetto "Ho capito, signor sì", il duetto Don Giovanni - Leporello "Eh via buffone", l’aria di Don Ottavio “Il mio tesoro intanto”, il concertato finale “Questo è il fin”. In compenso si guadagna il duetto di Masetto e Zerlina “Per queste tue manine”, un rattoppo scritto da Mozart con la mano sinistra.

Come protagonista Barkhatov ha scelto, Roberto Frontali, un cantante piuttosto avanti negli anni, così come il Don Giovanni immaginato dal regista russo. Frontali è ancora oggi uno splendido cantante verdiano - il suo recente Rigoletto era da manuale - e ha fatto capire che grande cantante sia anche in questo suo tardivo debutto mozartiano. È stato magnifico nei recitativi e magistrale anche nelle arie, a cui mancavano solo certe sfumature seducenti, che inevitabilmente la voce ha perso alla sua età: ma era proprio quel che Barkhatov cercava. Vito Priante è più che una sicurezza, è un interprete maiuscolo di questi ruoli: per di più la sua innata eleganza si attaglia perfettamente a questo Leporello, presentato dalla regia non tanto come un “servo buffo” ma come un maggiordomo. Grande prova delle due Donne. Maria Grazia Schiavo canta Donna Anna con bel timbro, sicurezza in tutta l’ampia estensione di questa parte e tecnica impeccabile, non esibita in sciocchi virtuosismi, come si sente spesso in “Or sai chi l’onore”, ma usata per una linea di canto sicura e omogenea dal grave all’acuto. Dire che i recitativi accompagnati delle sue due arie sono tra i momenti migliori dell’opera non la sminuisce, perché non sono affatto pagine minori e richiedono una grande cantante e soprattutto una grande interprete. Simile discorso si può fare a proposito di Carmela Remigio, che è però più passionale, come si conviene a Donna Elvira, e ha una voce più vibrante, nel duplice senso del termine.

A posto Anthony Leon (Don Ottavio) e Miahi Damian (Masetto), da cui però era lecito attendersi qualcosa di più. Eleonora Bellocci presta a Zerlina una voce delicata, dal timbro quasi infantile, coerente con la regia, che la presenta con un velo da sposa sul capo ma vestita con un abito da bambina e abbracciata a un orsacchiotto di pelouche rosa più grande di lei. Gianluca Buratto non ha bisogno di scurire artificialmente la voce per essere, a dispetto della regia, un Commendatore sicuro e autorevole.

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