Messiaen, ecco come finisce il mondo
Il Trio di Parma (con Alessandro Carbonare) esegue il Quatuor pour la fin du temps per il Premio Borciani
Come sarà l'ultima musica, quando finirà il nostro tempo? Negli ultimi mesi il mondo ha fatto diverse prove per lo spettacolo definitivo e l'asse della realtà delle cose si è spostato. Nell'attesa di tornare a vivere senza la paura del contatto, mentre le città si ripopolano di forme di socialità asociale e le mandrie vanno al precipizio dell'aperitivo, finalmente torna anche l'ossigeno dei concerti.
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Non forniscono risposte, questi cinquanta minuti di musica difficile da descrivere, per il loro carattere profondamente imprendibile, sottilmente, profondamente ipnotico, elusivo. Posto in apertura al Premio Borciani, il concorso internazionale per quartetti che da dodici anni anima Reggio Emilia, il concerto del Trio di Parma (Alberto Miodini al pianoforte, Ivan Rabaglia al violino, Enrico Bronzi al violoncello), con Alessandro Carbonare al clarinetto, inaugura la rassegna nella splendida cornice dei Chiostri di San Pietro, sotto lo sguardo austero delle statue dei santi, nel migliore dei modi, con il Quatuor pour la fin du temps di Olivier Messiaen.
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Dicevamo, in apertura: che suono resterà, nel mondo, quando il vociare e l'umano trambusto svaniranno? Quale sarà l'armonia della fine, quando il pianeta sarà libero dalle catene della nostra tracotante presenza? Nella visione del genio di Avignone la fede aveva un posto fondamentale e quindi la tensione era tutta verso un eterno presente di luce, ancora più nitida ed intensa in quanto desiderata e dettata in musica in tempi oscuri. Ottant'anni fa durante la barbarie della guerra, oggi durante il diluvio epidemico. Musica della prigionia, scritta durante la reclusione di oltre un anno subita quando l'esercito tedesco invade la Francia e Messiaen viene catturato con migliaia di soldati francesi, tra il 1940 ed il 1941.
Otto movimenti per simboleggiare un riposo eterno, una pace che non tramonterà, la perfezione del sette destinata all'infinito. Poi domande, labirinti, fertili ambiguità, veglie, fughe, panorami ripidi, estatici, cangianti, come un Dio che sbatte le palpebre e semina tracce di melodie come enigmi sullo spartito. Il tempo in tutta la partitura soggiace a regole inafferrabili a un ascolto non approfondito; eppure si viene comunque catturati all'istante in una tela avvolgente, in un discorrere articolatissimo ma miracolosamente naturale, in un meccanismo spietato e fluido, monumentale, aperto, tra l'abisso della condizione umana e il nitore abbagliante dell'elevazione al cielo.
Nel Quatuor il problema del tempo è centrale e lo stesso Messiaen lo spiega: «Da musicista, ho lavorato con il ritmo. Il ritmo è, per sua essenza, mutamento e divisione. Studiare il mutamento e la divisione significa studiare il tempo. Il tempo – misurato, relativo, fisiologico, psicologico – si può dividere in mille modi tra i quali il più immediato per noi è la perpetua conversione dell’avvenire nel passato. Nell’eternità queste cose non esisteranno più».
I sogni colorati e le visioni dovute all'assenza di cibo patita durante l'internamento sono lo stimolo per la creazione di una musica che non somiglia a niente e anticipa il futuro; negli arcigni obbligati del sesto movimento non suoni peregrino trovare l'avant-jazz di un Tim Berne allo specchio o le ruggini preziose delle migliori esperienze art-rock, ma ovviamente tanto altro potremmo trovare in questo vero e proprio vaso di Pandora (Ligeti, Riley, Part); è la peculiarità ineffabile di questi tableaux acustici dell'Apocalisse a lasciare ammaliati e storditi, come ci ritrovassimo su vette dove l'aria è limpidissima e rarefatta, finalmente lontani dalle miserie della quotidianità.
L'esecuzione del Trio di Parma con Alessandro Carbonare al clarinetto è semplicemente magistrale; gli uccelli, a cui Messiaen, ha dedicato un intero ciclo, volteggiano nel cielo sopra di noi, mentre ancora abbiamo l'illusione di poter svanire nella musica, in un tempo magnifico e lento, dove regnano un equilibrio austero e talvolta commosso, che non sfocia mai nel dramma o nell'enfasi, e dinamiche delicatissime, invincibili e precarie come il filo che ci tiene appesi a questa vita. D'altro canto, con un altro genio del secolo passato, T.S.Eliot, «Questo è il modo in cui il mondo finisce. Non con uno schianto, ma un lamento».
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