Melanie De Biasio e Kassa Overall, il "jazz" di JAZZMI

Una magnetica Melanie De Biasio a JAZZMI, e il live di Kassa Overall con Paul Wilson

Kassa Overall (foto di Federica Cicuttini) JAZZMI Melanie De Biasio
Kassa Overall (foto di Federica Cicuttini)
Recensione
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Triennale Teatro Milano
Melanie De Biasio / Kassa Overall
09 Novembre 2019

Cominciamo dal secondo set, poi capirete perché: Kassa Overall, già batterista per Arto Lindsay, Geri Allen, Vijay Iyer e Dee Dee Bridgewater, si presenta in duo con Paul Wilson a pianoforte e tastiere (un Fender Rhodes, un paio di Nord Lead dal caratteristico colore rosso e un bass synth ). «Faremo alcuni esperimenti», esordisce l'eclettico musicista una volta sul palco. Promessa mantenuta anche se risultato non sempre a fuoco, con in primo piano sempre l'interazione tra laptop, sample e il suono acustico, a creare una avvincente ipotesi di swing futuribile o di ibridazione tra hip hop e jazz: le produzioni Thirsty Ear meno sghembe e ispide, un gospel da missione spaziale, l'Anti Pop Consortium trattato con l'ammorbidente, una scrittura che guarda al mainstream black ma non diventa mai piatta, grazie ad arrangiamenti sempre interessanti e freschi.

Overall è un istrione, si alterna tra batteria e rap con estrema naturalezza; assistiamo a una sorta di ritorno al futuro del funky, groove in HD che puntano dritti dritti a una discoteca di New York, una fuga dal clubbing e dalle nebbie di certo jazz ordita con intelligenza e talento: non tutto in questo scintillante meccanismo pare sempre al posto giusto (le cascate di autotune sulla voce danno sì una patina 3.0 al progetto ma suonano a volte un po' stucchevoli, e anche la scrittura dei pezzi a volte latita), ma il concerto è pensato soprattuto per divertire la platea che risponde bene. Lungo l'arco descritto da questo arcobaleno hyper pop troviamo anche citazioni da Satie (una interessante rivisitazione nu soul delle Gymnopédies) e di Jobim ("Darkness in My Heart", dal nuovo album in uscita nel 2020, riprende il canovaccio armonico di "Insensatez").

Rava / ECM in Special Edition a JAZZMI

Ma il concerto per il quale nutriamo aspettative altissime in questa penultima sera del torrenziale JAZZMI (10 giorni in cui Milano è stata letteralmente sommersa di jazz, declinato secondo le più diverse prospettive, da Enrico Rava a Nubya Garcia, da Ghostpoet a Kaja Draksler) è il primo, tra i due che si tengono nello splendido spazio del Teatro della Triennale.

Melanie De Biasio (foto di Federica Cicuttini)
Melanie De Biasio (foto di Federica Cicuttini)

Melanie De Biasio, rivelatasi al grande pubblico con No Deal del 2013, è una cantante semplicemente straordinaria. Nella sua voce si incontrano Nina Simone, Patty Waters, Beth Gibbons (lo spleen urbano dei Portishead ritorna in mente più volte), ma il timbro e il modo di porgerla sono assolutamente unici e inconfondibili. Accompagnata da un trio di eccellenti musicisti, abili nel suonare costantemente in punta di dita lasciando che la musica respiri e crei spazio con e nel silenzio, Melanie tiene fede alle intenzioni che ci aveva espresso nell'intervista di un anno e mezzo fa: «Creare texture, aria, profondità, ossimori, velluto blu, non so”.

Così provava a definire le proprie canzoni, elegie notturne immerse in una nebbia jazz, esercizi zen per respiro, corde, pelli e tasti, una perfetta riduzione all'essenziale, un viaggio al cuore del blues, del soul, del nero in musica, dove ogni dettaglio dell'arrangiamento è curato con la stessa lenta e meticolosa cura con cui si ordina un giardino zen. E poi arriva la voce a scompigliare i pensieri, a pescarti l'anima nelle scarpe, con la potenza inesauribile, inesorabile di un sussurro e di un pugno di note.

Less Is More: intervista Melanie De Biasio

Riconosciamo diversi pezzi dagli ultimi due album (l'ultimo è Lilies, del 2017), rivisti per l'occasione come fossero (e come in effetti in qualche modo sono) standard, classici istantanei, canzoni nude come fiammiferi nel buio, senza tempo, capaci di portare chi ascolta in una stanza sul bordo di un abisso. "I Feel You", da No Deal, è stravolta e disossata, l'uso della chitarra al posto del basso fa restare il suono ancora più a mezz'aria: galleggiamo allora in questo liquido amniotico cosmico ed intimo, osservando le città e le nostre intenzioni dall'alto ("Gold Junkies", che in versione espansa è Blackened Cities, la suite che compone l'EP omonimo del 2016), tra murder ballads come "Let Me Love You" (“Let me love you or stab me to death”) e perfette pop song fatte di niente come "Your Freedom Is the End of Me".

Sottrazione la parola d'ordine, la possibile risposta femminile alla meraviglia arresa di Mark Hollis: gli stessi brividi, la stessa sensazione di miracolo fragile e monumentale. Melanie danza sul palco, non dice una parola, che, come ricordava il poeta Caproni le parole dissolvono l'oggetto, e queste parole in musica, come recitano scarne note di copertina in Lilies, rappresentano l'urgenza di una resa al suono e dentro di esso. Tutte le canzoni sono movimenti istintivi di amore e resistenza.

Le luci si spengono, l'ultimo suono muore in un silenzio più ampio di quello che ricordavamo prima dell'inizio del concerto. Sipario.

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