Lou, Ornette e gli altri
Lou Reed e l'ebraismo nella cultura americana come autonomia di sguardo
Recensione
oltre
Nei coccodrilli che mi è capitato di leggere nei giorni scorsi, il particolare spessore dell'arte di Lou Reed, la sua speciale personalità con cui si staglia con pochi paragoni nel panorama del rock, vengono ricondotti ad un complesso di fattori: un travaglio personale che comincia a manifestarsi nell'adolescenza, e che conosce una precipitazione nell'esperienza dell'elettroshock a cui Lou viene sottoposto per via delle
sue tendenze bisessuali; agli studi universitari di giornalismo e
letteratura, e soprattutto all'influenza di uno dei suoi insegnanti, il
poeta Delmore Schwartz; agli stimoli dell'arte di avanguardia, non ultima
la musica di Ornette Coleman e Cecil Taylor; poi ai fertili incontri con
John Cale e quindi con Warhol.
Naturalmente, nell'economia di un coccodrillo non si può dire tutto. Ma riflettevo su un paio di aspetti, che nella mia percezione hanno profondamente a che vedere con il percorso e la consistenza artistica di Reed.
Più o meno tutti citano l'origine ebraica di Reed. Se Reed fosse stato un romanziere, non c'è dubbio che tutti si sarebbero sbizzarriti a vedere le relazioni fra la sua opera e la cultura ebraica. Invece stiamo parlando di uno che cantava e suonava la chitarra, e allora ci si ferma lì, semplicemente ricordando che suo padre era un contabile ebreo di Brooklyn, o al limite tirando in ballo una aneddotica spicciola di battute di Reed, che una volta risponde che il suo Dio è il rock'n'roll, eccetera.
Tutto qui? In ogni caso, quello che è innanzitutto rilevante non è il rapporto esteriore e cosciente di Reed con la religione ebraica, ma la sua appartenenza culturale, di cui del resto si può rintracciare più di un sintomo nei suoi testi (si pensi al sarcastico “Good Evening Mr. Waldheim”, indirizzato - principalmente ma non solo - al segretario generale delle Nazioni Unite, e poi presidente austriaco, che aveva parecchi scheletri nell'armadio) e nel suo itinerario (ebreo è appunto Delmore Schwartz, che leggendolo ad alta voce gli rivela la bellezza di Finnegans Wake di Joyce, e a lui Reed resterà sempre riconoscente). Certo negli anni Cinquanta negli Stati Uniti un giovane non aveva bisogno di essere ebreo per essere inquieto. Ma sarà un caso se due personaggi che giganteggiano nella cultura rock americana, Dylan e Reed, sono ebrei? Sarà un caso se c'è una percentuale molto alta di ebrei tra i protagonisti del punk-rock americano, come ha raccontato Lee Barber nel suo gustoso libro The Heebie-Jeebies at CBGB's? Oltre a Lou Reed, Joey e Tommy Ramone, Alana Vega, Jonathan Richman, Lenny Kaye (chitarrista di Patti Smith), Richard Hell, Chris Stein, e Hilly Kristal, fondatore del CBGB's. L'ebraismo americano del Novecento è in larga parte il prodotto di un'immigrazione di proletari, spesso socialisti, comunisti e anarchici, che avevano sperimentato ghetti e pogrom: portatori di una cultura incline all'apertura, all'innovazione, al ragionamento, capace di aderire ad un nuovo contesto però mantenendo una forte distanza critica. Ma vent'anni fa, nel loro manifesto per una Radical New Jewish Culture, John Zorn e Marc Ribot ci ricordavano più specificamente - e fra i nomi c'era anche quello di Lou Reed - che dell'ebraismo fa parte anche una grande tradizione di spirito iconoclasta.
È stato col manifesto di Zorn e Ribot che abbiamo cominciato a renderci conto dell'estensione del contributo ebraico alla musica americana: da Benny Goodman a Stan Getz, da Lee Konitz a Shelly Manne, da Paul Bley a Steve Lacy, la vicenda della musica americana per eccellenza, il jazz, è in una parte rilevantissima segnata dalla presenza ebraica; da Irvin Berlin a Gershwin, da Bernstein a Copland, da Richard Rodgers a Burt Bacharach, da Steve Reich a Morton Feldman, moltissimi dei più emblematici compositori americani sono di origine ebraica; e di origine ebraica è la maggior parte della generazione dei musicisti bianchi di ambito post-free, avantgarde, noise emersa fra anni ottanta e novanta, con Zorn, Tim Berne, Ribot, Dave Moss, Elliot Sharp, Kip Hanrahan, eccetera. Lou Reed va visto dentro questa storia.
Più o meno tutti i coccodrilli hanno segnalato l'importanza che Reed ha attribuito all'ascolto di Ornette Coleman; molti hanno fatto riferimento all'influenza che il free jazz avrebbe avuto sull'approccio alla chitarra di Reed; e qualcuno si è spinto un po' più oltre, vedendone un riflesso in certa spigolosità dei Velvet Underground. Però mi pare che il punto non sia principalmente questo, di un'influenza "stilistica". Negli anni Cinquanta Reed ascolta rhythm'n'blues e doo woop; poi, pur continuando a coltivare questi generi, al passaggio fra anni Cinquanta e Sessanta, nel suo periodo universitario, rimane affascinato da musiche rivoluzionarie come quelle di Coleman e Taylor. L'interesse per la musica di Taylor, rapportato all'epoca, è se possibile ancora più significativo. All'università, nel '61, Reed gestisce uno show radiofonico, in cui come sigla utilizza “Excursion On A Wobbly Rail”, un brano da Looking Ahead!, album di Taylor uscito nel '59. Alla fine dello stesso '59 Ornette sbarca a New York e si esibisce al Five Spot, dove poi sarà a lungo anche nel '60, e fa grande scalpore: le polemiche infuriano, molti dei grandi del jazz non capiscono, Max Roach assesta un cazzotto in faccia al mite Ornette, Miles dice che Coleman ha un gran casino nella testa, Dizzy Gillespie che Coleman comunque non fa jazz, ma intanto i concerti attirano Bernstein, Norman Mailer, i pittori dell'astrattismo, i bohèmien del Village. E anche Lou Reed va a sentire il quartetto di Coleman. È allora, per tutta una serie di dinamiche artistico-sociologico-culturali, che esplode il free jazz, benchè Cecil sia già da prima sulla scena di New York e si sia anche esibito al Five Spot, ma senza altrettanto clamore. Anzi, il boom di Ornette oscura in qualche modo l'arte di Taylor. Nel '61 questa è tutta una vicenda freschissima, e che Reed scelga un brano di Taylor come sigla è indicativo della sua acutezza e del suo anticonformismo. La sua storia d'amore col jazz non finirà lì: Don Cherry, compagno di avventure del primo Coleman, comparirà in The Bells; già nel nuovo millennio Ornette suonerà in “Guilty”, un brano di “The Raven” (nel suo sito Reed ha religiosamente messo a disposizione tutte e sette le prese dell'incisione realizzate da Ornette);in rete si può vedere un'intervista in cui Reed e Lars Ulrich dei Metallica parlano amabilmente di Dexter Gordon; eccetera. Ma quello che ci preme qui è che al principio degli anni Sessanta Reed si dota di alcune esperienze espressive decisive, Coleman e Taylor per la musica, che probabilmente non sono importanti tanto per i riflessi "stilistici" sulla poetica di Reed, quanto perché attraverso esempi del genere, così come di Joyce, Reed fissa l'asticella delle sue esigenze estetiche, dell'altezza a cui vuole dare forma alle sue urgenze. In questo senso Reed entra poi in un mondo di arte pop, di musica rock, con un'attrezzatura che proviene anche dall'esterno di quel mondo e che lo aiuta a starci dentro senza conformismi, senza scivolare in quell'estetica in definitiva conciliante e consolatoria che è di gran parte del rock.
In questo si può forse vedere del resto anche una analogia con l'attitudine intellettuale che l'ebraismo ha mostrato nel confronto con una realtà come quella americana, immergendosi, ma conservando una autonomia di sguardo.
Naturalmente, nell'economia di un coccodrillo non si può dire tutto. Ma riflettevo su un paio di aspetti, che nella mia percezione hanno profondamente a che vedere con il percorso e la consistenza artistica di Reed.
Più o meno tutti citano l'origine ebraica di Reed. Se Reed fosse stato un romanziere, non c'è dubbio che tutti si sarebbero sbizzarriti a vedere le relazioni fra la sua opera e la cultura ebraica. Invece stiamo parlando di uno che cantava e suonava la chitarra, e allora ci si ferma lì, semplicemente ricordando che suo padre era un contabile ebreo di Brooklyn, o al limite tirando in ballo una aneddotica spicciola di battute di Reed, che una volta risponde che il suo Dio è il rock'n'roll, eccetera.
Tutto qui? In ogni caso, quello che è innanzitutto rilevante non è il rapporto esteriore e cosciente di Reed con la religione ebraica, ma la sua appartenenza culturale, di cui del resto si può rintracciare più di un sintomo nei suoi testi (si pensi al sarcastico “Good Evening Mr. Waldheim”, indirizzato - principalmente ma non solo - al segretario generale delle Nazioni Unite, e poi presidente austriaco, che aveva parecchi scheletri nell'armadio) e nel suo itinerario (ebreo è appunto Delmore Schwartz, che leggendolo ad alta voce gli rivela la bellezza di Finnegans Wake di Joyce, e a lui Reed resterà sempre riconoscente). Certo negli anni Cinquanta negli Stati Uniti un giovane non aveva bisogno di essere ebreo per essere inquieto. Ma sarà un caso se due personaggi che giganteggiano nella cultura rock americana, Dylan e Reed, sono ebrei? Sarà un caso se c'è una percentuale molto alta di ebrei tra i protagonisti del punk-rock americano, come ha raccontato Lee Barber nel suo gustoso libro The Heebie-Jeebies at CBGB's? Oltre a Lou Reed, Joey e Tommy Ramone, Alana Vega, Jonathan Richman, Lenny Kaye (chitarrista di Patti Smith), Richard Hell, Chris Stein, e Hilly Kristal, fondatore del CBGB's. L'ebraismo americano del Novecento è in larga parte il prodotto di un'immigrazione di proletari, spesso socialisti, comunisti e anarchici, che avevano sperimentato ghetti e pogrom: portatori di una cultura incline all'apertura, all'innovazione, al ragionamento, capace di aderire ad un nuovo contesto però mantenendo una forte distanza critica. Ma vent'anni fa, nel loro manifesto per una Radical New Jewish Culture, John Zorn e Marc Ribot ci ricordavano più specificamente - e fra i nomi c'era anche quello di Lou Reed - che dell'ebraismo fa parte anche una grande tradizione di spirito iconoclasta.
È stato col manifesto di Zorn e Ribot che abbiamo cominciato a renderci conto dell'estensione del contributo ebraico alla musica americana: da Benny Goodman a Stan Getz, da Lee Konitz a Shelly Manne, da Paul Bley a Steve Lacy, la vicenda della musica americana per eccellenza, il jazz, è in una parte rilevantissima segnata dalla presenza ebraica; da Irvin Berlin a Gershwin, da Bernstein a Copland, da Richard Rodgers a Burt Bacharach, da Steve Reich a Morton Feldman, moltissimi dei più emblematici compositori americani sono di origine ebraica; e di origine ebraica è la maggior parte della generazione dei musicisti bianchi di ambito post-free, avantgarde, noise emersa fra anni ottanta e novanta, con Zorn, Tim Berne, Ribot, Dave Moss, Elliot Sharp, Kip Hanrahan, eccetera. Lou Reed va visto dentro questa storia.
Più o meno tutti i coccodrilli hanno segnalato l'importanza che Reed ha attribuito all'ascolto di Ornette Coleman; molti hanno fatto riferimento all'influenza che il free jazz avrebbe avuto sull'approccio alla chitarra di Reed; e qualcuno si è spinto un po' più oltre, vedendone un riflesso in certa spigolosità dei Velvet Underground. Però mi pare che il punto non sia principalmente questo, di un'influenza "stilistica". Negli anni Cinquanta Reed ascolta rhythm'n'blues e doo woop; poi, pur continuando a coltivare questi generi, al passaggio fra anni Cinquanta e Sessanta, nel suo periodo universitario, rimane affascinato da musiche rivoluzionarie come quelle di Coleman e Taylor. L'interesse per la musica di Taylor, rapportato all'epoca, è se possibile ancora più significativo. All'università, nel '61, Reed gestisce uno show radiofonico, in cui come sigla utilizza “Excursion On A Wobbly Rail”, un brano da Looking Ahead!, album di Taylor uscito nel '59. Alla fine dello stesso '59 Ornette sbarca a New York e si esibisce al Five Spot, dove poi sarà a lungo anche nel '60, e fa grande scalpore: le polemiche infuriano, molti dei grandi del jazz non capiscono, Max Roach assesta un cazzotto in faccia al mite Ornette, Miles dice che Coleman ha un gran casino nella testa, Dizzy Gillespie che Coleman comunque non fa jazz, ma intanto i concerti attirano Bernstein, Norman Mailer, i pittori dell'astrattismo, i bohèmien del Village. E anche Lou Reed va a sentire il quartetto di Coleman. È allora, per tutta una serie di dinamiche artistico-sociologico-culturali, che esplode il free jazz, benchè Cecil sia già da prima sulla scena di New York e si sia anche esibito al Five Spot, ma senza altrettanto clamore. Anzi, il boom di Ornette oscura in qualche modo l'arte di Taylor. Nel '61 questa è tutta una vicenda freschissima, e che Reed scelga un brano di Taylor come sigla è indicativo della sua acutezza e del suo anticonformismo. La sua storia d'amore col jazz non finirà lì: Don Cherry, compagno di avventure del primo Coleman, comparirà in The Bells; già nel nuovo millennio Ornette suonerà in “Guilty”, un brano di “The Raven” (nel suo sito Reed ha religiosamente messo a disposizione tutte e sette le prese dell'incisione realizzate da Ornette);in rete si può vedere un'intervista in cui Reed e Lars Ulrich dei Metallica parlano amabilmente di Dexter Gordon; eccetera. Ma quello che ci preme qui è che al principio degli anni Sessanta Reed si dota di alcune esperienze espressive decisive, Coleman e Taylor per la musica, che probabilmente non sono importanti tanto per i riflessi "stilistici" sulla poetica di Reed, quanto perché attraverso esempi del genere, così come di Joyce, Reed fissa l'asticella delle sue esigenze estetiche, dell'altezza a cui vuole dare forma alle sue urgenze. In questo senso Reed entra poi in un mondo di arte pop, di musica rock, con un'attrezzatura che proviene anche dall'esterno di quel mondo e che lo aiuta a starci dentro senza conformismi, senza scivolare in quell'estetica in definitiva conciliante e consolatoria che è di gran parte del rock.
In questo si può forse vedere del resto anche una analogia con l'attitudine intellettuale che l'ebraismo ha mostrato nel confronto con una realtà come quella americana, immergendosi, ma conservando una autonomia di sguardo.
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