LOST nel labirinto

LOST (Labyrinth Original Sound Track) ha occupato per due giorni il labirinto di Franco Maria Ricci a Fontanellato

 LOST-Labyrinth Original Sound Track foto di Riccardo Trianni
Foto di Riccardo Trianni
Recensione
oltre
Labirinto della Masone, Fontanellato, Parma
LOST Festival
07 Giugno 2019 - 08 Giugno 2019

Non c'è bisogno di costruire un labirinto quando l'intero universo è un labirinto: così Jorge Luis Borges che, oramai cieco, divenne amico di Franco Maria Ricci, l'ideatore del luogo magico dove ha avuto luogo il festival LOST (Labyrinth Original Sound Track).

Il geniale argentino , con i suoi passi incerti da non vedente e i suoi racconti illuminanti su smarrimenti infiniti è stato una grande fonte di ispirazione per Ricci, che ha deciso dunque di costruire il più grande labirinto del mondo nei dintorni di Parma, a Fontanellato. Nella piazza, per così dire, di questo luogo reale e simbolico per due giorni si sono succedute performance e concerti, con un contorno di installazioni all'interno del labirinto stesso, dove l'invito era dunque quello a perders, let's get lost.

Come in un labirinto è inevitabile perdere i punti di riferimento e non rispettare l'ordine sequenziale, così noi partiamo dall'ultima serata, che ci ha convinto solo in parte. Molto buone le apnee in un mondo senza gravità di Maria W Horn, vertigini scabre e crude che preludono all'arrivo di forme di vita sconosciute. Il set è una lunga veglia, come l'attesa dei Tartari nel racconto di Buzzati. Straniante e potente, sebbene certo non inedito.

Delude invece Tim Hecker, che aveva stregato chi scrive anni fa a Bologna erigendo una cattedrale di suono.  Stavolta il canadese presenta Anoyo, uscito da poco per Kranky: qualche soluzione timbrica interessante grazie alla presenza del Konoyo Ensemble (in realtà semplicemente un duo, alle prese con strumenti tipici della tradizione musicale imperiale giapponese). Lampi di bellezza affogati però in un mare ambient dove l'attenzione naufraga.

Più fisico e spigoloso il set, al centro della corte, di Ben Frost, tra percussioni da fonderia, graffi laceranti, voragini  e un nero pece dal quale non sembra esserci scampo. Attitudine hardcore, energia da vendere, incubi  affollati e abissali in cui non è semplice penetrare, selve di silicio dense di noise che hanno il pregio di tentare una via diversa per rapire chi ascolta.

Anteprima italiana di Wydening Gyre 360° Surround Show. Lo ricordavamo più didascalico (avvistato anni fa al festival Semibreve di Braga, in Portogallo): a questo giro, al netto di qualche lungaggine, ci ha convinto. Riavvolgiamo ora il nastro, e ripartiamo dalla prima serata: il compito di aprire la rassegna spetta agli Ozmotic, primi italiani a pubblicare per la prestigiosa Touch Records e già collaboratori di nomi prestigiosi come Fennesz e Murcof; il duo presenta Elusive Balance: fratture etno ambient, come una rivisitazione in chiave electro chill out di certe meditazioni di Jan Garbarek (il sassofono, a dire il vero rivedibile). Lunghe manovre ambient senza particolari sbalzi né nelle tessiture né nel mood generale. Piani sequenza che scolorano in una stasi senza estasi, qualche glitch in un cielo elettronico che non sa promettere pioggia. Lampi passeggeri di ispirazione affogati in un paeaggio che ricorda un'Islanda da fantascienza umanistica.

Più interessante, sebbene sempre ancorata in parte a una bella calligrafia che non esce in modo particolare dal già sentito Antarctic Takt di Dasha Rush, in collaborazione con Stanislav Glazov, an Artificial journey to abstract Antarctica, come dichiara la musicista russa. Inframondi, fascino del disadorno, architettura di un cristallo di ghiaccio, fascino della gelida desolazione, tunnel del vento infiniti dove vaga un austero vento digitale, un mood vagamente minaccioso. La bellezza del monumentale e del microscopico. La chiosa del video è: "Grazie per non essere qui. Sinceramente vostro, Antartide".

Una performance che sarebbe potuta essere una buona colonna sonora alternativa per Encounters at the End of the World di Werner Herzog, girato proprio in Antartide. A seguire Exaland di Spime.im, e ci si risveglia dal torpore: un'attitudine decisamente più aggressiva, colate laviche, vampe, piogge techno frastagliate e apocalittiche, il mood post tutto dell'elettronica di casa Subtext (un nome su tutti, Paul Jebanasam). Cieli infranti, aerei dirottati in technicolor, strumenti di precisione impazziti, abrasioni, eruzioni, astrazioni techno, destrutturazioni e un finale in gloria gabber. Un set che non ha timori di dichiarare la propria chiara discendenza dal magistero Autechre ma che colpisce pienamente il bersaglio: ottimo, affilato, trascinante.

C'era molta attesa per Cabaret Voltaire; sul palco si presenta il solo Richard H. Kirk, che trascina il pubblico ad un rave dei primi anni Novanta con un video industrial filologico ed efficacissimo con blob in replica su tre schermi. Profezie di ieri, cronache di domani, cassandre catodiche, Reagan, Batman, telegiornali, Wikileaks, Ucraina, voci, rasoiate di synth, graffi, ipotesi, moduli, il suono della televisione e del cielo bigio di Sheffield, un sabba tecnopagano o un rituale dell'Antropocene. Tanta classe (parliamo di un musicista che ha fatto la storia) ma anche un po' di pilota automatico.

Un festival eclettico e interessante, questo LOST: titoli di coda per un mondo (s)finito, fuochi artificiali in HD, un labirinto di suoni e di voci in un mondo in cui l'alfabeto delle possibilità è oramai sterminato. I significati, le esperienze si accavallano in una ridda di voci come in un dizionario sbagliato dei sinonimi e dei contrari. Non ci sono verità a cui aggrapparsi, in questo mondo arreso al caos, non ci sono direzioni, non ci sono briciole per ritrovare la via. Viviamo nell'epoca del Labirinto, e questi suoni, a volte illuminanti, ce la restituiscono fedelmente.

Mai ci sarà una porta. Tu sei dentro
e la fortezza è pari all’universo
dove non è diritto né rovescio
né muro esterno né segreto centro.
Non sperare che l’aspro tuo cammino
che ciecamente si biforca in due,
che ciecamente si biforca in due,
abbia fine.
(Jorge Louis Borges)

 

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