L’Olandese volante, il belcanto e l’impossibilità della redenzione
Nathalie Stutzmann dirige al Regio di Torino l’opera di Wagner
Dopo sei lunghi anni di assenza Richard Wagner è tornato nel cartellone del Teatro Regio di Torino con Der fliegende Holländer, “opera romantica” e incrocio dove confluiscono tanti miti e linguaggi della civiltà europea: letterari, religiosi, musicali, di diversa radice.
In un reel pubblicato sul profilo Instagram ufficiale del Regio, la direttrice Nathalie Stutzmann ha sottolineato l’elemento italiano, dei molti che compongono quest’opera: «c’è ancora tanta italianità e belcanto, ma tutto si fa nell’orchestra e i cantanti si posano sull’orchestra». In effetti, nella lettura che ha dato dell’opera, l’orchestra senz’altro sciaborda e spuma, anche con qualche rubato, fluttuazione e altri giochi di prestigio col tempo (per esempio, su «Du siehst, das Glück ist günstig dir», il tema orchestrale è realizzato con un trattenuto iniziale che lo fa rassomigliare a un valzer viennese); e certo non si trattiene nel dar giù di bordate fatali quando serve picchiare. Ma si nota altresì come Stutzmann sia molto attenta nel far respirare la musica nelle aperture di belcanto, per esempio nel meraviglioso tema «Ach! ohne Weib, ohne Kind bin ich» cantato dall’Olandese, un esempio della ‘italian connection’ del periodo in cui Wagner ancora amava la musica di Bellini.
Per fare il belcanto però serve il canto. Brian Mulligan (l’Olandese) è un ottimo baritono, e nell’Anteprima Giovani è stato ancora più bravo che alla Prima: una voce limpida che viaggia, vola, si espande nell’aria. I due tenori, Robert Watson (Erik) e Matthew Swensen (il Timoniere) sono convincenti. Della stecca alla Prima parleranno, forse, altri, ma non è importante. Meno convincenti, a nostro avviso, Johanni Van Oostrum (Senta), Annely Peebo (Mary) e soprattutto l'indisposto Gidon Saks (Daland).
La produzione in scena al Teatro Regio vi ha in realtà debuttato nel 2012 e porta la firma del regista Willy Decker. L’impianto scenografico (di Wolfgang Gussmann) è un interno borghese, come è da decenni consuetudine nelle regie wagneriane, ma vuoto e simbolico, come hanno insegnato Appia e Wieland Wagner. Il regista, nel programma di sala, parla di un «mare interiore» che agita i protagonisti e che non si può mostrare in scena «se non negli individui, ovvero proprio là dove si trovano precisamente il senso e il centro della pratica teatrale». Vero, e infatti la pratica teatrale di una ripresa senza il regista, per quanto condotta con perizia, non potrà mai restituirne compiutamente il senso. Perciò non parleremo della recitazione, né della decisione di eliminare l’elemento acquatico dalla morte di Senta, che non si annega – neanche simbolicamente – ma si pugnala.
Soffermiamoci invece su un problema affascinante, su cui si è molto scritto. Nel finale, durante la risacca orchestrale che riporta i principali temi dell’opera dopo la morte di Senta, la regia suggerisce che la maledizione dell’Olandese non si sia spezzata, ma continuerà a perpetuarsi attraverso il quadro che lo raffigura. Dunque, niente redenzione come normalmente si crede. Alberto Bosco, in un bel saggio sul programma di sala, afferma che l’impossibilità della redenzione sia dettata da ragioni interne alla musica, ossia per il fatto che «i temi ritornano in modo quasi ossessivo», senza uno sviluppo liberatorio come in Beethoven, e che il rovello di questa circolarità ritorna in tutti i drammi di Wagner. Dovremmo leggere così anche Parsifal? È un tema che invita sempre a meditare.
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