Le contraddizioni di elettronica e jazz nella Biennale Musica 2024
Le buone intenzioni della direzione artistica e l'impressione di un dialogo con gli altri mondi musicali rimasto incompleto
Di questa ultima Biennale Musica firmata Lucia Ronchetti (su cui ha già iniziato a ragionare Stefano Nardelli) ho seguito, un po’ programmaticamente, gli eventi che erano classificati nelle sezioni “Absolute Jazz” e “Solo electronics”, dedicate rispettivamente a solisti che fanno riferimento all’ambito del jazz e dell’elettronica sperimentale.
– Leggi anche: L’assoluto relativo della Biennale Musica 2024
Ambiti nei quali il concetto di “musica assoluta” si dimostra prevedibilmente debole e poco interessante a “inquadrare” contesti e possibilità, al di là delle fragili cornici ideologiche, su cui, non a caso, anche gli studiosi e le studiose che contribuiscono al ponderoso catalogo (tra l’altro fa un po’ sorridere e pensare, con tutto il rispetto dovuto allo studioso, che per scrivere di jazz venga convocato un assistente di filosofia dell’università di Münster e non un musicologo o una musicologa di ambito africano-americano o comunque una figura specialista della materia come negli altri saggi) fanno un po’ di acrobazie per tenere insieme il discorso.
I soli di “Absolute jazz” vengono posizionati nelle meravigliose Tese dei soppalchi, su un palco centrale, ma senza sedie. Una scelta piuttosto opinabile, data la natura “d’ascolto” e contemplativa delle proposte e la loro non attraversabilità (leggasi: se uno spettatore si metteva a camminare nello spazio avrebbe disturbato artisti e altri spettatori).
Con l’esito di costringere molti a una competizione darwiniana per poche sedie “riservate” a chi ne avesse avuto davvero bisogno e tutti gli altri a sedersi sul pavimento.
Due maestri del jazz creativo dei nostri anni, Tyshawn Sorey e Peter Evans hanno offerto le prove più convincenti. Sorey, batterista straordinario, ma qui in veste di pianista – pratica che frequenta con grande serietà da anni – ha costruito il suo solo con indubbia intelligenza: incanta vedere la leggerezza di tocco che delle “manone” così grandi come le sue riescono a produrre. Alternando dilatazioni timbriche e densi accumuli percussivi, con una particolare attenzione alle risonanze e al respiro complessivo dell’architettura sonora, il musicista afroamericano si è meritato i molti applausi e si conferma tra le personalità più intriganti della sua generazione.
Discorso in parte analogo per Peter Evans, che con la tromba non solo fa quel che vuole in termini di tecniche estese (interazione con il microfono, con la voce, con la meccanica dello strumento, oltre al campionario illimitato di suoni, soffi, schiocchi, stridii etc.), ma riesce a comporre questo virtuosisimo in quadri coerenti di inattesa forza emotiva.
La sua performance convince e risplende nello spazio delle Tese, anche quando illuminata in modo eccessivamente didascalico dal disegno luci di Theresa Baumgartner, che è certamente artista della luce bravissima, ma le cui trovate, viste in troppi concerti – praticamente tutti quelli che ho seguito – risultano talvolta non così necessarie e un po’ invadenti, a maggior ragione in un’idea di musica “pura”.
Non altrettanto ispirato come i colleghi americani è sembrato l’austriaco Georg Vogel, con il suo Claviton la cui tastiera divide l’ottava in 31 intervalli. Al di là dell’ammirazione per la rigorosità dell’approccio microtonale, la musica è sembrata (direi un po’ a tutti, data la tiepidità degli applausi) tutt’altro che emozionante o interessante.
Nell’intento di dimostrare le varie possibilità dello strumento, Vogel ha divagato per un’ora piuttosto interminabile tra ostinati, temi, accordi, squarci di assolo “fusion”, il tutto con un suono che a tratti ricorda quello di una steel guitar ascoltata sotto mescalina o - per non andare troppo in là geograficamente - di uno zither fuori fuoco dopo troppe birre.
A colpire, quand’anche volessimo inquadrare la bizzarria novelty della proposta in un filone più vintage sci-fi e di revival dei sintetizzatori analogici, è la scarsa performatività e ironia della proposta, che più che ambire alla musica assoluta, rischia di ripiegarsi in una, per quanto encomiabile tecnologicamente, autoreferenziale incomunicabilità.
Non va molto meglio con la performance di Layale Chaker, che usa violino, voce e elettronica per un recital che giustappone forme differenti di maqam. Al di là della bravura tecnica, non è ben chiaro dove Chaker voglia condurre chi la ascolta e la fascinazione timbrica rimane sempre velata da una caligine di distacco che impedisce di immergersi davvero appieno nell’ascolto.
Per i “Solo Electronics” è stata scelta quest’anno una location post-industriale a Forte Marghera, luogo certo percepito un po’ scomodo e periferico, ma certamente ricco di potenziale. In un ambiente “clubbin’” (qui stare in piedi era ovviamente del tutto corretto) con il bar, l’ottimo impianto audio e con le luci della Baumgartner a sagomare l’atmosfera, le tre serate (io ne ho seguite due) hanno alternato artiste e artisti di area elettronica.
Straordinaria è stata la performance di Tim Hecker, che ha riempito lo spazio gradualmente, smussando il massimalismo dell’impatto sonoro con una calibratissima finezza timbrica. Meraviglioso davvero.
Buono anche il lavoro di Ash Fure, con la sua capacità di mettere in contatto la fisicità e il suono, e quello in perenne sospensione di Sam Barker, mentre meno interessante mi è sembrato l’approccio dell’ungherese Zsolt Sőrés. Dei dj set di fine serata, peccato per Robert Machiri, la cui ricerca sul jazz e l’Africa avrebbe meritato forse un’altra collocazione ed era molto scarica per un finale di domenica sera, mentre la dura techno minimale di Cecilia Tosh ha forse sofferto del problema contrario, richiedendo quasi di potersi espandere più dell’ora canonica per portare a compimento il proprio rito.
L’elettronica fa capolino anche nell’unico concerto della sezione “Sound Structures” che ho seguito: nel pezzo di Zeno Baldi, per la precisione, “Laminar Flow”, un buon lavoro di interazione elettroacustica tra pianoforte, percussioni e elettronica che il quartetto newyorkese Yarn/Wire fa respirare nel modo più intenso. La serata viene completata dalla “Orchestra Of Black Butterflies” della compositrice svedese Lisa Streich, caratterizzata dall’accordatura dei due pianoforti a un quarto di tono di differenza e da alcune striscie di carta motorizzate che fanno vibrare le corde, oltre che dalle percussioni. Un lavoro che promette bene, ma che con il passare dei minuti si appiattisce, pur con eccellente controllo sonoro, e sembra quasi svanire nel nulla.
Resta, al di là del concerto più o meno riuscito e delle riflessioni che già avevamo condiviso lo scorso anno in occasione dei diversi act elettronici dell’edizione 2023, e che sono più che mai attuali, l’impressione che il dialogo con questi mondi resti sempre incompleto, ricco di buone intenzioni (e di qualche pigrizia, molte proposte venivano dalla medesima agenzia berlinese), ma in fondo più utile a accontentare comunità di spettatori differenti che a metterle in connessione.
Resta, al di là del concerto più o meno riuscito, l’impressione che il dialogo con questi mondi resti sempre incompleto, ricco di buone intenzioni (e di qualche pigrizia, molte proposte venivano dalla medesima agenzia berlinese), ma in fondo più utile a accontentare comunità di spettatori differenti che a metterle in connessione.
Sono questioni che ciascuna delle direzioni artistiche che si sono alternate in questi ultimi 20 anni - e a cui dedicheremo un articolo a parte – e non solo Lucia Ronchetti ha cercato in fondo di affrontare con le risorse e le intuizioni più sincere, ma che nemmeno con la miglior promozione e con il “vanto” per gli artisti di un simile riconoscimento, riescono a nascondere l’ovvia contradditorietà delle differenti funzioni sociali e culturali dei rispettivi mondi.
Si chiude un quadriennio, si chiude probabilmente un’era (i rumors che corrono nei corridoi biennaleschi sulle future direzioni sono molto gustosi, anche se ostinatamente mi pare continuino a escludere e nemmeno a contemplare la categoria professionale che sarebbe/è predisposta alla direzione artistica, cioè curatrici e curatori, ma anche di questo riparleremo…).
Si chiude un arco Battistelli/Francesconi/Fedele/Ronchetti in cui progressivamente abbiamo visto il Festival diventare solido, una crescente attenzione a promozione e pubblici nuovi (in questo senso - e del tutto disinteressatamente - merita un plauso l’ufficio stampa, che in questi anni ci ha permesso di sedere accanto a colleghe e colleghi più internazionali, versatili e giovani e non solo ai soliti quattro, pur rispettabilissimi, senatori della contemporanea), alcune cose belle, altre decisamente meno, un'era a cui probabilmente è mancata una vera e propria “visione”, intesa sia come ampiezza di sguardo su cosa offre il mondo oggi, sia come direzione innovativa del pensiero, che è quello che qualcuno ancora chiede alla Biennale.
Non che fosse una cosa facile, non lo è per nulla, ma nell’era dei Festival che sono diventati “il” luogo dove accadono le cose - in alcuni ambiti anche a scapito delle programmazioni più distribuite nel tempo - sono desideri e bisogni che si legano alla potenza e potenzialità di un ascolto articolato, sociale e forse, iperbolicamente, “dissoluto” che mi sembra, posso sbagliarmi, più urgente che non ridare “vita” a un concetto superato (nonché smentito dalla storia e dagli approcci alle musiche di ricerca, per non dire di quelle popular cui appartengono jazz e elettronica) come quello della musica “assoluta”.
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