La tragedia di un diverso: German come Čajkovskij?

Teatro Regio di Torino: assai apprezzata musicalmente la realizzazione di una Dama di picche registicamente psicanalitica

La dama di picche (Foto Mattia Gaido)
La dama di picche (Foto Mattia Gaido)
Recensione
classica
Teatro Regio, Torino
La dama di picche
03 Aprile 2025 - 16 Aprile 2025

Il Teatro Regio di Torino propone uno dei capolavori operistici di Čajkovskij, La dama di picche, l’ultimo – tra quelli in più atti – cronologicamente, e massimamente impegnativo per la bontà interpretativa che richiede in buca e in scena, a sostenere tre ore piene di musica, peraltro di estrema varietà: alle note profondità lirico-drammatiche del compositore russo, si uniscono qui consapevoli e sopraffini quasi-calchi stilistici mozartiani, collegati alle scena di festa o rappresentazione situate nello spazio-tempo dell’azione (San Pietroburgo, 1775 circa). 

La prova degli interpreti, appunto, è stata nel complesso pienamente all’altezza: Mikhail Pirogov è un German assai solido, convincente sia nelle fasi drammatiche o dialogate, essenziali anche per l’assoluta centralità della parte (e rese qui scolpendo bene recitazione e parola), sia nei soli più struggenti, fino alla convergenza finale dei due caratteri nel ‘credo’ nichilista-fatalista dell’ultimo quadro; Zarina Abaeva è una Liza che valorizza le qualità umbratili e malinconiche della parte, e attorialmente concretizza benissimo in coppia con la magistrale Contessa di Jennifer Larmore – costanti precisione e sicurezza d’emissione anche nel registro grave – la caratterizzazione registica con cui sono stati qui improntati i due personaggi femminili principali (ci si soffermerà in seguito). Molto applaudite – meritatamente – le performance degli altri tre esecutori scenici principali: il Tomskij di Elchin Azizov è sempre puntuale, vocalmente nitido e teatralmente di buon piglio, con menzione particolare per il racconto-chiave nel primo quadro; di sostanza il principe Eleckij di  Vladimir Stoyanov, suono morbido ma profondo e ben appoggiato, fraseggio elegante, che ha disegnato al meglio la nobiltà anche ‘etica’ della figura; ottima la Polina di Deniz Uzun, molto espressiva – e perfettamente fusa in quella recante anche la linea sopranile – nelle due canzoni del II quadro. Positiva anche la resa di un po’ tutti i comprimari. La direzione di Valentin Uryupin ha ottenuto efficaci gradazioni timbrico-dinamiche, senza forzare il suono degli archi, con qualche fatica nella sincronizzazione orchestra-coro (ma va detto che Čajkovskij qui chiede moltissimo, soprattutto alla compagine sinfonica).

La lettura registica di Sam Brown – da un progetto che Graham Vick non ha potuto sviluppare – appare chiara, perfino didascalica sin da una scena (qua quella iniziale, estesa all’introduzione sinfonica) che, come sempre più spesso accade oggi, viene investita, a dispetto della sua funzione fatica-spettacolare, di senso decisivo: a differenza che nell’altro capolavoro čajkovskiano da Puškin, la fatale inquietudine di German deriva dal suo essere, ancor più che un outsider, un fuori-posto, un ‘diverso’, un tedesco – fa fede il nome – in mezzo ai russi: certo, nel periodo di regno di una zarina (Caterina) della medesima origine, ma si sa che ai nobili di massimo rango è consentito – anzi favorito! – il successo transnazionale, non agli ufficiali di medio livello. Per questo cerca spasmodicamente nella ricchezza attraverso il gioco la strada al riscatto contro le umiliazioni adolescenziali subite dai patriottici ragazzini russi-russi della scena iniziale, armati di kalashnikov e bullizzanti un coetaneo con un peluche d’orso (vale a dire German). Egli potrebbe salvarsi nell’amore venturo di una bambina – la futura Liza – che, in figura di bambola, lo rialza e gli raccoglie il peluche, ma German-ragazzino lo rifiuta: il nocciolo della trama incipiente, insomma, nella quale si aggiunge una Contessa per nulla bigotta e conservatrice, anzi sensuale e carnalmente nostalgica della vita spericolata vissuta da giovane a Parigi tra desiderio e azzardo. Da qui altre conseguenti scelte di regia: Liza risulta meno attraente – e sicuramente più complessata – della Contessa, o lo è in una forma (le foto di una ragazza carina anni-Settanta) che rinvia direttamente alla moda ‘castigata’ sovietica di quegli anni; la Contessa invece continua a non tirarsi indietro di fronte alle eccitanti avventure della vita mettendo in scena una vera e propria seduzione nei confronti di German. Ovviamente, il suo fantasma negli ultimi quadri diventa un vero fantasma libidico per German, fino al rovesciamento psicanalitico finale (la Contessa come ‘madre’ freudiana, e Liza quale vera vindice per il destino). Per il resto, la regia ha potuto appoggiarsi a soluzioni spazio-scenografiche dopotutto ben giocate per rispecchiare le tante e differenti spazialità, tra linee di neon, velature e elementi rotanti o semoventi (spostati a vista o in intervalli riempiti da proiezioni di un film muto sullo stesso soggetto o citazioni letterarie significative); i costumi, firmati sempre da Stuart Nunn, hanno parimenti servito con efficacia la lettura del regista, così come le allusive coreografie. Alla replica visionata, molto apprezzata dal pubblico quanto a interpreti vocali-musicali, non si è affacciato alla ribalta a fine esecuzione il team registico: sarebbe stato interessante registrare la reazione in sala, attestata – alla prima – come non priva di qualche dissenso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche

classica

Folgorante apertura del Festival di Pasqua a Baden-Baden prima dell’addio e il ritorno a Salisburgo 

classica

A Bruxelles il romanzo di Gustave Flaubert messo in musica dal compositore belga Harold Noben

classica

Recital di romanze da camera per l'Accademia Filarmonica Romana