La tragedia di un diverso: German come Čajkovskij?
Teatro Regio di Torino: assai apprezzata musicalmente la realizzazione di una Dama di picche registicamente psicanalitica

Il Teatro Regio di Torino propone uno dei capolavori operistici di Čajkovskij, La dama di picche, l’ultimo – tra quelli in più atti – cronologicamente, e massimamente impegnativo per la bontà interpretativa che richiede in buca e in scena, a sostenere tre ore piene di musica, peraltro di estrema varietà: alle note profondità lirico-drammatiche del compositore russo, si uniscono qui consapevoli e sopraffini quasi-calchi stilistici mozartiani, collegati alle scena di festa o rappresentazione situate nello spazio-tempo dell’azione (San Pietroburgo, 1775 circa).
La prova degli interpreti, appunto, è stata nel complesso pienamente all’altezza: Mikhail Pirogov è un German assai solido, convincente sia nelle fasi drammatiche o dialogate, essenziali anche per l’assoluta centralità della parte (e rese qui scolpendo bene recitazione e parola), sia nei soli più struggenti, fino alla convergenza finale dei due caratteri nel ‘credo’ nichilista-fatalista dell’ultimo quadro; Zarina Abaeva è una Liza che valorizza le qualità umbratili e malinconiche della parte, e attorialmente concretizza benissimo in coppia con la magistrale Contessa di Jennifer Larmore – costanti precisione e sicurezza d’emissione anche nel registro grave – la caratterizzazione registica con cui sono stati qui improntati i due personaggi femminili principali (ci si soffermerà in seguito). Molto applaudite – meritatamente – le performance degli altri tre esecutori scenici principali: il Tomskij di Elchin Azizov è sempre puntuale, vocalmente nitido e teatralmente di buon piglio, con menzione particolare per il racconto-chiave nel primo quadro; di sostanza il principe Eleckij di Vladimir Stoyanov, suono morbido ma profondo e ben appoggiato, fraseggio elegante, che ha disegnato al meglio la nobiltà anche ‘etica’ della figura; ottima la Polina di Deniz Uzun, molto espressiva – e perfettamente fusa in quella recante anche la linea sopranile – nelle due canzoni del II quadro. Positiva anche la resa di un po’ tutti i comprimari. La direzione di Valentin Uryupin ha ottenuto efficaci gradazioni timbrico-dinamiche, senza forzare il suono degli archi, con qualche fatica nella sincronizzazione orchestra-coro (ma va detto che Čajkovskij qui chiede moltissimo, soprattutto alla compagine sinfonica).
La lettura registica di Sam Brown – da un progetto che Graham Vick non ha potuto sviluppare – appare chiara, perfino didascalica sin da una scena (qua quella iniziale, estesa all’introduzione sinfonica) che, come sempre più spesso accade oggi, viene investita, a dispetto della sua funzione fatica-spettacolare, di senso decisivo: a differenza che nell’altro capolavoro čajkovskiano da Puškin, la fatale inquietudine di German deriva dal suo essere, ancor più che un outsider, un fuori-posto, un ‘diverso’, un tedesco – fa fede il nome – in mezzo ai russi: certo, nel periodo di regno di una zarina (Caterina) della medesima origine, ma si sa che ai nobili di massimo rango è consentito – anzi favorito! – il successo transnazionale, non agli ufficiali di medio livello. Per questo cerca spasmodicamente nella ricchezza attraverso il gioco la strada al riscatto contro le umiliazioni adolescenziali subite dai patriottici ragazzini russi-russi della scena iniziale, armati di kalashnikov e bullizzanti un coetaneo con un peluche d’orso (vale a dire German). Egli potrebbe salvarsi nell’amore venturo di una bambina – la futura Liza – che, in figura di bambola, lo rialza e gli raccoglie il peluche, ma German-ragazzino lo rifiuta: il nocciolo della trama incipiente, insomma, nella quale si aggiunge una Contessa per nulla bigotta e conservatrice, anzi sensuale e carnalmente nostalgica della vita spericolata vissuta da giovane a Parigi tra desiderio e azzardo. Da qui altre conseguenti scelte di regia: Liza risulta meno attraente – e sicuramente più complessata – della Contessa, o lo è in una forma (le foto di una ragazza carina anni-Settanta) che rinvia direttamente alla moda ‘castigata’ sovietica di quegli anni; la Contessa invece continua a non tirarsi indietro di fronte alle eccitanti avventure della vita mettendo in scena una vera e propria seduzione nei confronti di German. Ovviamente, il suo fantasma negli ultimi quadri diventa un vero fantasma libidico per German, fino al rovesciamento psicanalitico finale (la Contessa come ‘madre’ freudiana, e Liza quale vera vindice per il destino). Per il resto, la regia ha potuto appoggiarsi a soluzioni spazio-scenografiche dopotutto ben giocate per rispecchiare le tante e differenti spazialità, tra linee di neon, velature e elementi rotanti o semoventi (spostati a vista o in intervalli riempiti da proiezioni di un film muto sullo stesso soggetto o citazioni letterarie significative); i costumi, firmati sempre da Stuart Nunn, hanno parimenti servito con efficacia la lettura del regista, così come le allusive coreografie. Alla replica visionata, molto apprezzata dal pubblico quanto a interpreti vocali-musicali, non si è affacciato alla ribalta a fine esecuzione il team registico: sarebbe stato interessante registrare la reazione in sala, attestata – alla prima – come non priva di qualche dissenso.
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