La terza Manon al Teatro Regio di Torino

La versione di Auber, i misteri dell’acustica e Dolores Costello

Manon Lescaut
Manon Lescaut
Recensione
classica
Torino, Teatro Regio
Manon Lescaut
17 Ottobre 2024 - 27 Ottobre 2024

Teatro Regio, Torino: per la terza volta, sulle note di Auber dopo quelle di Puccini  e di Massenet, Manon Lescaut è morta, Des Grieux s’è disperato e il pubblico ha applaudito. Il progetto Manon Manon Manon può così dirsi felicemente concluso; riuscito lo sforzo produttivo di mandare in scena tre grandi opere in un mese (e ancora ci sono le repliche); lodevole l’operazione culturale di accostare tre Manon affinché ne potessimo delibare analogie e differenze di epoca, drammaturgia e sensibilità artistica nel mettere in musica il medesimo soggetto.

 

La Manon Lescaut di Auber, che risale al 1858, non era mai andata in scena a Torino, e non è che altrove sia tanto di casa. Gli appassionati dovrebbero accorrere perché 1) seriamente, quando vi ricapita? 2) è un’opera piena di musica incantevole. Il linguaggio è esile e fuori tempo massimo per l’epoca, ma non per questo meno bello. Sembra trovarsi ancora nella Francia di Luigi Filippo, con le vecchie cadenze alla maniera di Rossini e Donizetti (e pensare che in giro c’erano Wagner, Verdi, Berlioz...). Molto divertimento offrono nei primi due atti i couplets brillanti e i cori, puro stile Offenbach. Lì, il Coro del Teatro Regio e l’Orchestra, diretta da Guillaume Tourniaire, scalpitano. Solo che, a un certo punto, la leggera opéra-comique – già sulla via dell’operetta – deve fare i conti con la virata tragica. Il duetto che conclude l’opera con la morte di Manon, di per sé, fu da subito considerato uno dei più notevoli di Auber. Ma il progetto Manon Manon Manon porta per statuto lo spettatore a confronti ravvicinati. Dopo Puccini e Massenet, questa morte ci suona stranamente impacciata, come la conversazione dello stesso Luigi Filippo (leggete, se volete divertirvi, i Souvenirs di Tocqueville), e il povero Auber figura un po’ sotto tono rispetto a quei due. Non che a lui importi qualcosa, beninteso.

 

Rocío Perez (Manon), Sébastien Guèze (Des Grieux), Armando Noguera (d’Hérigny), Francesco Salvadori (Lescaut), Manuela Custer (Bancelin) hanno superato con fermezza le difficoltà del canto. Perez ha suscitato un’ovazione dopo l’acrobatica “Bourbonnaise”. Nonostante Tourniaire abbia dosato con sapienza il volume dell’orchestra, il suono delle voci aveva qui e là difficoltà a oltrepassarla. Poiché accadeva a tutti indistintamente, è probabile, come ci ha suggerito qualcuno, che ciò sia dovuto alla conformazione della scenografia. Misteri dell’acustica. 

 

Questione regia di Arnaud Bernard. A considerarla globalmente, l’operazione ci sembra riuscita pienamente solo in Massenet: qui, non è che le proiezioni cinematografiche diano fastidio (come in Puccini) ma manca quella compenetrazione tra linguaggi che faceva della Manon-Clouzot-Bardot uno splendido tutt’unico dove cinema e musica si sorreggevano vicendevolmente. Con Auber il film scelto è When a Man Loves (1927), trasposizione del romanzo dell’abbé Prévost, con gli occhioni di Dolores Costello che piangono le lacrime di Manon. Il linguaggio del cinema muto non sembra tuttavia avere altro scopo fuorché far fare qualcosa ai cantanti nei momenti drammaturgicamente statici, ovvero mostrare che il regista è stato a ragion veduta retribuito. Gli attori assumono pose da divi del cinema muto, la troupe ronza loro intorno, il figurante-regista gesticola imperiosamente, e via variando. Così, sotto la grande serra che fa da set (su, che Hugo Cabret l’avete visto), qualcosa succede. Certo, non mancano le scene d’azione, registicamente ben gestite, con ritmo e bella mano e solido mestiere: ma lì il problema del farfarqualcosa non si pone. Comunque, il risultato si è portato a casa. Addio, Manon.

                                                                                                                       

 

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