La narrazione trasparente

Ryoji Ikeda, il suono grafico e l'oggettività contemporanea

Recensione
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Chissà quanti, nella suggestiva platea allestita al piano terra di Palazzo Grassi/Fondazione François Pinault a Venezia – nell'ambito del NuFest di Veneto Jazz – avranno rivolto un pensiero alle recenti sventure giapponesi durante la performance di Ryoji Ikeda, Datamatics 2.0. Al di là di ogni suggestione e facile accostamento, non c'è dubbio che il ronzante flusso di dati e cifre che l'artista giapponese combina in proiezione "digital light processing" ricordi quello dei sismografi e dei contatori geiger che in questi giorni tracciano angoscianti mappe dello scenario nipponico. Che l'intrecciarsi dei numeri scandisca sotterraneamente le traiettorie della realtà urbana – c'è molta "architettura" nelle creazioni di Ikeda, anche quando le linee incrociano la posizione delle stelle nello spazio – è qualcosa che fa ormai parte, più o meno subliminalmente, della nostra vita, così come la resa grafica del suono, banalizzato nella nostra quotidianità dagli effetti di un qualsiasi media player. Ecco perché la performance di Ikeda, che pure è lavoro che brilla per eleganza, costruzione, ricostruzione (la seconda parte vive di accelerazioni ricombinatorie), non rappresenta un'esperienza di uscita dalla realtà, ma casomai un tuffo dentro il brulicante friggere dei numeri, quasi fossero lo scheletro di un procedere in cui l'aspetto umano può anche rimanere nascosto. Così, come il pubblico veneziano vede Ikeda affacciarsi solo per un rapido saluto finale durante gli applausi, si ha sempre più il senso che il narrare diventi una pratica oggettiva, trasparente (è spesso così anche per i romanzieri più giovani, che si affidano a forme semplici e lineari), in cui l'umano si osserva nella (in)certezza dei propri parametri emotivi. Tutto molto giapponese, direte voi, ma anche tutto molto nostro ormai... il fascino di Ryoji Ikeda sta anche in queste piccole, ronzanti ipotesi di verità.

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