La lezione di Club To Club

Con Junun, Jonny Greenwood, Swans, Ghali e DJ Shadow si è chiuso il festival 2016

Recensione
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Alla fine della settimana di Club To Club 2016, l’evento migliore – quello che resterà a lungo nella memoria di chi c’era – rimane la performance di Arca, di cui ho già scritto.

Il venerdì sera la serata inizia presto con la svedese Anna von Hausswolff: cantautrice “dark” dalla voce eterea il cui ruolo è quello di preparare il palco agli Swans. Una lunga coda di chitarre massimaliste e synth tirati al massimo dovrebbe servire allo scopo. Come si scoprirà a breve, il livello del volume è già alto – ma può salire ancora.

La performance della band di Michael Gira non è nulla che non ci si aspettasse. Dopo un inizio in melina, in cui i componenti del gruppo si osservano e suonicchiano, il muro di suono si alza sul Lingotto. In scaletta lunghe “suite”, una escursione dinamica da ff a fff e, ad occhio, 4-5 accordi in tutto. Tanto basta: la tensione non molla per quasi due ore, e ne esce un grande concerto. I grandi spazio del padiglione 1 sono perfetti per tanto rimbombare, e l’esperienza diviene più corporea che acustica.

Menzione d’onore, nella serata, per il set di Powell, aggressivo, sporco e tutto su ritmi sostenutissimi. Nick Murphy / Chet Faker fa il suo con gran classe, e accende il pubblico con “Everything in Its Right Place” dei Radiohead. I quali – come è ovvio che sia – in un festival di “nuovo pop” affiorano continuamente.

L’acustica del Lingotto, invece, non si rivela adatta per tutti i tipi di musica. Junun, l’attesissimo progetto del compositore e strumentista israeliano (ma indiano d’adozione) Shye Ben Tzur con Jonny Greenwood suona infatti molto sacrificato. Al di là delle composizioni di Qawwali di Shye Ben Tzur, il punto di forza del progetto su disco è la qualità del suono, la pasta delle chitarre elettriche e dell’elettronica innestate con stile e tocco spesso inconfondibilmente greenwoodiani – o alla Nigel Godrich, che il disco lo ha prodotto. Tutto questo, dal vivo, sembra sparire: la chitarra di Greenwood e poi il basso (che imbraccia per buona parte del set) sono sommerse dalle percussioni del Rajasthan Express. Per i primi pezzi tutto rimbomba e poco si capisce della dinamica di quello che succede sul palco… Poi qualcosa migliore, ma il concerto resta una piccola delusione (almeno per me che ho amato il disco). L’energia e il tiro, comunque, salvano il set e fanno muovere il pubblico.

La serata si era aperta con Ghali, nuovo fenomeno dell’hip hop italiano, arruolato mesi fa per il festival e nel frattempo arrivato alle vette delle classifiche di vendita e di streaming dopo una discreta gavetta. Catapultato sul palco principale, Ghali ha convinto – anche con il candore nell’ammettere di sentirsi “un pischelletto” in quel contesto. Ovviamente Ghali è sulla bocca di tutti perché è una notizia, oltre che un artista (essendo questo un paese in cui un rapper di genitori tunisini che usa italiano e arabo è una notizia). Molti gli pronosticano un radioso futuro: la strada sembra spianata.

Il meglio della serata è però tutto Old School: DJ Shadow è un navigato mestierante, con uno show di alto livello tutto fatto di “roba sua”, come annuncia all’inizio, e che raccoglie in un’ora e mezza materiali dall’ultimo disco, dai vari featuring fatti negli anni – con Run The Jewels, con Zach De La Rocha… – e ovviamente da Endtroducing, che ha compiuto un ventennio proprio quest’anno. I visual, curati da DJ Shadow con Ben Stokes, sono probabilmente i migliori visti a Club To Club.

Per concludere, il bilancio. 50 artisti, 15 paesi, 70 performance, 18 in esclusiva italiana, 12 prime assolute per 40 ore totali di musica. Soprattutto, 45.000 spettatori e 1000 accreditati: questi i numeri, con comprensibile orgoglio, sbandierati da Club To Club 2016.

Il dato che più stupisce non è tanto quello degli spettatori, pur notevolissimo: in alcuni momenti, specie nella prima parte delle serate con gli eventi più di “ascolto”, il Lingotto non era certo alla sua capienza massima. Al contrario, i 1000 accreditati (e le recensioni e gli endorsement entusiasti che gli accreditati spargono nel mondo) dimostrano invece al meglio la qualità del lavoro che è stato fatto nel corso di 16 edizioni, e le dimensioni che ha raggiunto il fenomeno Club To Club.

A costo di ripetersi, è proprio la continuità del lavoro svolto dalla direzione artistica ad aver permesso a Club To Club di raggiungere questo risultato, e di essere oggi l’evento-vetrina musicale più credibile per Torino – nonostante si tratti di un festival per la maggior parte messo su con soldi di sponsor privati (e veramente privati: grandi marchi internazionali, non partecipate del Comune). È la possibilità – come ha ricordato anche uno delle menti del festival, Sergio Ricciardone, in conferenza stampa – di lavorare tutto l’anno con uno staff di persone stabili, facendo eventi (Club To Club produce concerti anche al di fuori del suo weekend di novembre) e pianificando.

Mentre i festival a Torino nascevano e morivano, Club To Club continuava a lavorare: e oggi è quello che è. La lezione da imparare è, soprattutto, per gli enti pubblici.

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