La fine della Luna secondo Laurie Anderson
L'ultimo spettacolo dell'artista newyorkese oscilla tra minimalismo e sistema universo, tra buchi neri e buchi del linguaggio.
Recensione
classica
La vita è una forma degenerata dell'arte, spiega sussurrata e cantilenante Laurie Anderson: un copione in cui un sacco di sceneggiatori si contraddicono a vicenda, producendo una storia che va avanti a casaccio, con personaggi che entrano e escono di scena casualmente e a volte muoiono senza un buon motivo drammaturgico. Ma più che un passo avanti rispetto alla teoria di Oscar Wilde secondo cui la natura imita l'arte, il suo "The End of the Moon" –secondo episodio di una trilogia sull'America iniziata con "Happiness"– appare un modo di conciliarsi con una serie di esperienze recenti, a cominciare dall'essere stata per due anni la prima, e pare ultima, artista residente della NASA. C'è poi l'11 settembre, tragedia su cui ogni artista statunitense sembra sentirsi obbligato a dire la sua, con il rischio di trasformarla in un tormentone. Rischio da cui lei si salva all'ultimo momento con riflessione dolce amara: "Gli americani dicono che tutti ci odiano perché siamo ricchi, democratici e liberi. Mi ricordano quelle ragazze convinte di essere odiate perché sono belle: e no, tutti le odiano perché sono stronze..." (applausi del pubblico). Infine la guerra in Irak. La scienza, la Nasa guardano invece troppo lontano: cercano l'origine dell'universo, ma -si chiede lei- se la tua casa brucia, a che serve sapere chi è l'architetto che l'ha costruita.
Chi si fosse aspettato un palco iper-tecnologico in stile spaziale resterebbe però deluso: una scena appena disegnata dalle luci con un piccolo schermo dove si vede un pezzettino di luna in bianco e nero è tutto, per uno spettacolo basato sulle virtù incantatorie di Anderson narratrice, e dove lei trova dei buchi nel linguaggio ricorre a interventi del violino elettronico con morbidi accompagnamenti al computer. Non esente da lungaggini, in definitiva "The End of the Moon" si dimostra uno spettacolo rilassato, soffuso e che spinge a riflettere ma seguendo la regola d'oro di non farsi male: accolto in modo molto affettuoso dal pubblico romano.
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