Fino a ieri il vero Kurt Weill era il collaboratore di Brecht e tutto quello che aveva fatto nell'esilio americano veniva considerato una degnerazione commerciale del suo talento, invece ora circolano di più i suoi musical scritti per Broadway che l'Opera da tre soldi. Ma Lady in the dark è la dimostrazione che i vecchi pregiudizi vanno coltivati e mantenuti con cura. Senza Brecht la musica di Weill non ha più le unghie e assomiglia come una goccia d'acqua alla musica di qualsiasi altro compositore di successo di Broadway, nonostante la costruzione piuttosto originale, con continui sogni e flash-back. A chi invita a considerare questa musica una satira di quello che era musicalmente trendy in quel periodo, rispondiamo che la satira è talmente simile all'originale da far dubitare che si tratti più d'una copia che d'una presa in giro. Anche il testo, dovuto al "genio irrefrenabile" di Moss Hart e alla "celebre ironia" di Ira Gershwin, è alquanto sbiadito, perché la satira della psicanalisi forse aveva un significato nel 1941 ma oggi appare trita e ritrita. Col risultato che si guarda spesso l'orologio. In compenso è ancora oggi attuale il graffiante ritratto del mondo della moda. La lady del titolo infatti non solo è una vittima di un discepolo di Freud ma per di più dirige una rivista molto glamour: la interpreta Raina Kabaivanka, che forse non è interamente credibile come protagonista di un musical, ma è senza dubbio perfetta nella parte di se stessa, cioè d'una celebre cantante lirica che, giunta alla fine d'una gloriosa carriera, acconsente simpaticamente a cimentarsi col musical. Sorprendentemente è più credibile a vederla, purché non accenni passi di danza, che ad ascoltarla, con quella voce impostata e quell'accento esotico, quando recita in italiano, e con quel vibrato e quel tono melodrammatico, quando canta in inglese. Degli altri, Shon Sims è quello più a suo agio in questi ruoli pensati più per attori che per cantanti lirici: in particolare è stato irresistibile nella canzone su un testo formato da una sequela di nomi di compositori russi, resa celebre dal primo interprete, Danny Kaye. Nella scena fissa piuttosto tristanzuola di Lauro Crisman, la regia di Giorgio Marini scorre piacevolmente, ma senza grandi idee. La coreografia, parte fondamentale d'ogni musical, latita. Ma il corpo di ballo s'impegna qui con migliori risultati di quando deve dar vita a silfidi e cigni. Dal canto loro i coristi si divertono molto ad abbandonare gli abituali costumi da crociati, briganti e simili per trasformarsi in tanti aspiranti Fred Astaire con frack, cilindro e bastone. Ma meglio di tutti funziona l'orchestra, che, diretta da Steven Mercurio, ha lo swing di un'orchestrina americana e in più la pienezza di suono e l'à plomb di un'orchestra classica. Resta un'ultima considerazione: un musical come questo sarebbe più adatto al teatro Sistina che all'Opera, non per discriminazione razzista verso un genere "minore", ma perché la complessa macchina d'un teatro d'opera implica costi eccessivi per uno spettacolo che ha bisogno di cantanti-attori, non dei carissimi divi della lirica e di una ventina di strumentisti, non di un'orchestra di dimensioni sinfoniche.
Note: coproduzione col Massimo di Palermo; i testi recitati sono in versione italiana, quelli cantati nell'originale inglese
Interpreti: Kabaivanska/Daniel, Ariostini/Schuman, Sims/Beam, Lebdetter, Wade
Regia: Giorgio Marini
Scene: Lauro Crisman
Costumi: Elena Cicorella
Corpo di Ballo: Corpo di ballo del Teatro dell'Opera
Coreografo: Mario Piazza (Micha van Hoecke per la danza dei saltimbanchi)
Orchestra: Orchestra del Teatro dell'Opera
Direttore: Steven Mercurio
Coro: Coro del Teatro dell'Opera
Maestro Coro: Andrea Giorgi