La cupa parabola del potere del Verdi di Carsen
Difficile percorso ma esito felice per l’apertura di stagione al Teatro La Fenice con il Don Carlo
Se un risultato va riconosciuto a questa tormentata inaugurazione della nuova stagione lirica del Teatro La Fenice è la straordinaria forza con la quale tutte le componenti del teatro hanno saputo reagire ai drammatici eventi naturali, che hanno messo in ginocchio Venezia per diversi giorni e fuori uso il teatro nel pieno delle prove.
Superato il momento difficile, è andato felicemente in scena questo Don Carlo, assente da oltre vent’anni dal teatro veneziano. La versione scelta è quella italiana in quattro atti che, nelle parole di Verdi, ha “più concisione e più nerbo”, presentata per la prima volta al Teatro alla Scala nel 1884. L’allestimento, invece, è quello firmata da Robert Carsen un paio di stagioni per l’alsaziana Opéra du Rhin e curato dallo stesso regista per la ripresa veneziana.
Nero, nerissimo questo Don Carlo del regista canadese, nero come il colore del pessimismo totale di una parabola sulla violenza del potere, animata da un radicale anticlericalismo, certamente non estraneo al pensiero verdiano ma spinto all’estremo. Come estremo è il segno registico impresso sui personaggi: l’infante di Spagna è dipinto come un Amleto paralizzato nell’inazione, Filippo II un monarca ridotto all’inazione dalla stretta paralizzante della Chiesa, e Posa un cinico inseguitore di un disegno di potere alleato al lato oscuro della forza ecclesiastica (e questa torsione continua a sembrarci un effetto gratuito a Venezia come a Strasburgo due anni fa in uno spettacolo altrimenti rigoroso e senza sbavature). Solo Elisabetta conserva fino all’estremo la grande dignità, mentre Eboli finisce nel laccio dei suoi propri intrighi. Neri i costumi senza tempo a dominante clericale di Petra Reinhardt e nera, nerissima la scena spoglia disegnata da Radu Boruzescu, uno spazio vuoto in vertiginosa prospettiva con finestre e porte a scomparsa che servono come punti di osservazione dei protagonisti e dei loro drammi al centro della scena messi a nudo dalle luci livide di Robert Carsen e Peter Van Praet.
Non il nero ma i colori della notte sceglie invece il direttore Myung-Whun Chung, che sembra stabilire una linea di continuità con il notturno Macbeth diretto sempre alla Fenice un anno prima. Comune è il senso della morte che lega i due titoli e simile è la linea interpretativa scelta da Chung: contrasti violenti di sapore quasi espressionista e esaltazione dei suoni scuri degli archi gravi (magnifici i violoncelli) e degli spettrali ottoni, ma in questo Don Carlo si impone un afflato lirico più intenso e una maggiore attenzione alle ragioni del canto. Un’altra prova maggiore nella galleria di titoli verdiani che il teatro veneziano alimenta ormai da numerose stagioni.
Senza debolezze la compagnia messa in campo dal teatro, davvero ottima, che ha in Alex Esposito, al debutto nel ruolo, un interprete maturo e profondo per Filippo II: giovanile e vigoroso, amaro ma non cinico il suo sguardo sul mondo. L’infante è Piero Pretti, radioso nello slancio (anche vocale) ma frenato da una intima fragilità cui l’interprete dà un chiaro risalto. Posa è Julian Kim, forse poco aderente alle sottigliezze politiche immaginate per lui dal regista ma interprete dai mezzi vocali importanti e ben impiegati. Sul versante femminile, Maria Agresta come Elisabetta si conferma interprete di forte temperamento drammatico, mentre Veronica Simeoni mette al servizio di Eboli una ricca palette espressiva appena incrinata da qualche forzatura nella tessitura alta. Nel comparto ecclesiastico, Marco Spotti è un Inquisitore per una volta non decrepito ma oscuro e implacabile messaggero del potere vero e invisibile, mentre Leonard Bernad si fa notare per i severi incisi del piccolo ruolo del frate che apre e chiude la tragedia.
Non è mancato il pubblico in questa, malgrado tutto, felice apertura di stagione, affollata in tutte e cinque recite del cartellone e festeggiata con grande e solidale calore.
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