Inizia il ciclo mahleriano diretto da Harding
E Joshua Bell incanta nel Concerto di Dvorak. Poi tutti in tournée con l’Orchestra di Santa Cecilia
Questo concerto era un appuntamento di particolare importanza nel programma dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, perché per la prima volta Joshua Bell suonava con l’orchestra in quest’anno di sua “residenza” a Roma, perché Daniel Harding iniziava il ciclo completo delle sinfonie di Mahler, che proseguirà nelle prossime stagioni, e perché lo stesso programma sarà portato in tournée in Spagna, Germania e Polonia, toccando Barcellona, Amburgo, Francoforte e altre città.
Bell ha scelto il Concerto in la minore op. 53, opera poco nota di un compositore popolarissimo qual è Dvořák, che prese a modello il recente Concerto per violino di Brahms: così almeno si dice e forse era anche vero all’inizio, ma poi il lavoro di composizione si protrasse per quattro anni, durante i quali il progetto iniziale subì varie modifiche, e di Brahms rimase solo l’ombra, a testimonianza della gratitudine e dell’ammirazione tributategli da Dvořák. E così, fortunatamente, la personalità del compositore boemo si poté esprimere liberamente, per esempio nel sapore slavo che affiora qua e là e, per fare un esempio più specifico, nell’uso molto libero della forma-sonata nel primo movimento, a cui i ritorni continui e “ingiustificati” del tema iniziale a scapito del più pallido secondo tema danno un carattere improvvisativo. In effetti si avverte che la struttura è un po’ debole per sorreggere un movimento così ampio. Comunque è musica godibilissima, grazie anche alla bellezza del suono di Bell (che ha molti passaggi ‘a solo’, mentre l’orchestra tace e l’ascolta) e alla sua dote di far cantare meravigliosamente il fascinoso primo tema.
Ma il colpo di genio è il passaggio senza soluzione di continuità dal primo movimento all’Adagio ma non troppo, che consiste in una lunga melodia, in cui il violino emerge nettamente sull’accompagnamento dei soli strumenti gravi: anche e soprattutto in questo delicato, dolce e intimo idillio Bell fa di nuovo billare la bellezza e la cantabilità del suo suono. Il finale è un rondò su ritmi di danze slave, un veloce e gioioso furiant e una assorta e malinconica dumka. Per Bell è una vera festa, gli applausi sono entusiastici e come bis suona il Notturno n. 20 in do diesi minore, op. post. di Chopin in una trascrizione per arpa e violino: un arbitrio, un orrore, un affronto a Chopin, penseranno i filologi, ma cambierebbero idea se ascoltassero la meraviglia di quella melodia purissima e immensamente triste e straziante suonata da Bell, emozionante e indimenticabile. Bravissima anche l’arpista Silvia Podrecca.
Il resto del concerto era dedicato alla Sinfonia n. 1 “Titano” di Mahler. Prima Harding ha diretto quello che in origine doveva essere il secondo movimento della sinfonia, intitolato Blumine. Lo si è ascoltato volentieri ma è un brano non più che piacevole, molto semplice, troppo diverso dal resto della sinfonia, e si capisce perché Mahler abbia deciso di espungerlo. Era comunque interessante sentire l’orchestrazione originaria di questa sinfonia, che aveva dimensioni poco più che haydniane, prima che Mahler in varie revisioni successive la portasse alle dimensioni attuali, raddoppiando i legni, portando i corni a sette, le trombe a quattro, introducendo tre tromboni, ecc.
Passando alla sinfonia nella sua forma definitiva, Harding ha nell’attacco pianissimo la possibilità di sfoggiare un suono appena percepibile, proveniente da distanze siderali, da un altro mondo, che è una sua specialità (ci aveva fatto ascoltare qualcosa di simile anche all’inizio del Requiem di Verdi). Questa cura perfetta del suono si riscontra quasi in ogni momento, ma talvolta rischia di essere fine a sé stessa: per esempio, quando su quel suono fisso iniziale si poggiano i suoni della memoria della vita infantile tipici di Mahler (una piccola fanfara, il verso del cuculo), Harding non fa sentire la nostalgia per quel mondo perduto. Né si avverte o si avverte in maniera attutita il dilaniante contrasto tra la marcia funebre e la canzoncina infantile (che in Italia è nota come Frà Martino campanaro) che Mahler sovrappone e fonde nel terzo movimento. Altrove questa cura del suono giunge a risultati splendidi. Per esempio, la coda del quarto e ultimo movimento è un’apoteosi che annulla ogni dubbio, ogni contrasto, ogni nostalgia, in un tripudio sonoro che simula il trionfo dell’eroe (il Titano del titolo) ma non ha nulla di glorioso, anzi (soprattutto in quest’interpretazione di Harding, che per bellezza e luminosità del suono supera ogni altra da noi ascoltata) annega e annulla l’individuo in un oceano di suono abbagliante.
Anche Harding ha avuto una super razione di applausi. Ma all’esplosione di entusiasmo non corrisponde poi la durata degli applausi, che si estinguono in pochi minuti: una cattiva abitudine del pubblico romano, che lascia gli interpreti stranieri giustamente sorpresi e un po’ delusi.
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