Per il suo debutto all’Opera Noseda sceglie Brahms
Il direttore milanese ha portato l’orchestra e il coro del teatro ad un eccellente interpretazione di un compositore a loro ben poco familiare
Non si può pretendere che tutte le fondazioni liriche italiane, dopo aver programmato e poi adattato, cancellato, riprogrammato le loro stagioni, siano nella condizione di ripartire nel giro di pochi giorni, come se fosse una cosa da niente preparare spettacoli che coinvolgono centinaia di persone e richiedono settimane di prove. Qualcuno si è trovato nella fortunata condizione di poterlo fare, altri no. Così l’Opera di Roma ha deciso di aspettare la stagione estiva all’aperto per allestire nuovamente delle opere e nel frattempo sta proponendo una serie di concerti sinfonici. D’altronde i costi di un’opera, a differenza di quelli ben più contenuti di un concerto, non sono compatibili con la presenza di soli cinquecento spettatori in sala, ma questa è un’opinione personale.
Il secondo di tali concerti ha visto il debutto al Teatro Costanzi di Gianandrea Noseda, che ha scelto un programma interamente brahmsiano, iniziando con due di quei brani relativamente poco noti per coro e orchestra che formano un gruppo a sé nell’opera del compositore amburghese. Per questi capolavori Brahms ha scelto versi di Schiller, Goethe e Hölderlin, i tre più grandi poeti tedeschi vissuti tra diciottesimo e diciannovesimo, nella cui opera classicismo e romanticismo si integrano, come, mutatis mutandis, avviene anche nella musica di Brahms.
In Nänie, un’elegia funebre scritta per la morte di un amico, Friedrich Schiller rievoca le mitiche figure di Orfeo, Adone ed Achille e il pianto degli dei stessi quando “la bellezza passa e la perfezione muore”. Ma più che lo stile sublime e il significato tragico di questi versi è la composta e serena accettazione della morte ad ispirare Brahms, che non sceglie tonalità minori, come ci si sarebbe potuto aspettare, ma scrive un brano interamente in maggiore, che emana un senso di intima e affettuosa elegia nella prima e nella terza parte, mentre nella parte centrale si illumina di una radiosa serenità.
Anche Das Schicksalslied (Il canto del destino) su versi di Friedrich Hölderlin inizia in modo maggiore e una luce olimpica pervade le prime due strofe, ma nella terza (“Svaniscono, cadono i poveri uomini, alla cieca, da un'ora all'altra, come l'acqua da un masso all'altro precipitano giù nell'ignoto”) Brahms passa alla tonalità “fatale” di do minore e allora terrore e angoscia s’impossessano della musica, fino a sfiorare quasi il grido, prima che tutto si ricomponga nella ripresa della serena introduzione orchestrale, in do maggiore.
L’esecuzione ha un po’ sofferto per la divisione del coro – imposta dal distanziamento indispensabile in questo periodo - in tre gruppi lontanissimi tra loro, uno dietro l’orchestra, un altro nei palchi di sinistra e un altro nei palchi di destra. In tali condizioni i vari gruppi non potevano neanche sentirsi tra loro ed è stato un miracolo mantenere l’intonazione e il tempo precisi: evidentemente il coro era stato ben preparato da Roberto Gabbiani. In questa situazione acusticamente infelice Noseda ha governato gli equilibri tra coro e orchestra nel migliore dei modi possibili e con la sua interpretazione molto intensa e drammatica ha coinvolto profondamente gli ascoltatori.
La seconda parte del concerto era dedicata alla Sinfonia n. 2. L’orchestra dell’Opera dà pochissimi concerti, quindi non ha familiarità con Brahms, che oltretutto è il compositore dell’Ottocento la cui mentalità e il cui stile sono più lontani dal melodramma, ma Noseda l’ha trasformata in pochi giorni in una formazione sinfonica di primo livello, che sembrava avere nel proprio DNA sia il vigore e la compattezza sia le sottili sfumature e la delicatezza degli impasti richieste da questa musica. Sotto la sua bacchetta la massa degli archi trovava un colore caldo e avvolgente su cui si innestava perfettamente il timbro tipicamente romantico dei corni. Gli interventi degli ottoni erano corruschi e minacciosi senza diventare teatrali. Soltanto uno e un solo intervento dei legni conservava curiosamente qualcosa del brillante chiacchiericcio degli strumentini in Rossini, al posto dell’intimo e morbido dialogo di sapore viennese che Brahms aveva in mente. Questo per limitarci al primo movimento. Altro ci sarebbe da dire del bellissimo Adagio, tenero, malinconico e sottilmente doloroso, e dell’esplosione di gioia tumultuosa del quarto movimento.
Lo splendido lavoro fatto da Noseda con l’orchestra andava di pari passo con un’interpretazione rivelatrice di quel misto inscindibile di energia e meditazione, di vitalità danzante ed elegia, di semplicità e complessità, in cui sta il fascino di questa Sinfonia ma che pone tanti problemi ai direttori.
Gli applausi del pubblico meritano un capitoletto a parte. Alcuni secondi di commosso silenzio hanno accolto la fine di Nänie, ma poi un incauto ha iniziato ad applaudire quando ancora aleggiava la risonanza dell’ultima nota dello Schicksalslied ed è stato zittito. Ma la cosa più bella è che una buona parte del pubblico ha applaudito dopo ogni movimento sella Sinfonia: evidentemente molti spettatori erano dei neofiti e il pubblico dei concerti ha bisogno di questa nuova linfa.
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