Il romanticismo della tastiera di Trifonov e il senso della vita per Thielemann
A Salisburgo incanta il genio del pianoforte e commuove il Requiem di Brahms
Amatissimo dal pubblico del Festspiel di Salisburgo e ospite fisso della rassegna, Daniil Trifonov offre un concerto pianistico di iniziazione a diverse atmosfere figlie di quel Romanticismo (declinato su un lunghissimo arco temporale) che intende la musica quale viatico verso l’assoluto. L’impaginato squaderna solo in apparenza brani assai distanti fra di loro nel tempo: dal 1785 della Fantasia di Mozart al raveliano Gaspar de la nuit del 1909.
L’Album per la gioventù di Ciajkovskij (1858) si apre con una preghiera mattutina e con un mattino d’inverno in cui Trifonov rivela un suono di splendente bellezza in quella semplicità solo apparente, di marca mozartiana, assai complicata da render sullo strumento. Nei ventiquattro piccoli brani, che rimandano all’omonimo album di Schumann (1848), Ciajkovskij presenta simboli ricorrenti e a lui cari, quali le melodie di Paesi amati come la Francia, l’Italia (e Napoli!), la Germania, la Russia, e figure amate, come Baba Jaga, i soldatini di legno, o il suonatore di organetto (d’ascendenza schubertiana). Nello scorrere rapido di queste pagine ognuna perfettamente individuata come una miniatura a sé stante, nel mutare d’atteggiamenti e personaggi, Trifonov mostra la stoffa dell’interprete di prima classe: è proprio nei pezzi dedicati ai bambini, infatti, che un pianista può svelare la ricchezza dei suoi mezzi. Ciajkovskij è ancora in contatto col proprio mondo interiore infantile: Trifonov intona con gravitas i tre brani dedicati alla malattia e alla sepoltura della bambola, seguita dall’arrivo di una nuova, come un adulto che sappia prender sul serio la lacerazione di un bambino di fronte a questo dolore.
Con la Fantasia op. 17 in do di Schumann, Trifonov ci conduce in uno dei sancta sanctorum del Romanticismo: il tasso di virtuosismo e l’impegno tecnico è più qui nettamente più alto che in Ciajkovskij. Il grande pathos del primo movimento risuona emozionalmente nel pubblico che comincia a innalzare la temperatura emotiva: esso, nella Grande Sala del Festspiel, piena fino all’ultimo posto, col proprio corpo non fa altro che perfezionarne l’acustica, rimandando l’energia che ci viene dal palcoscenico in gran quantità. Le due anime di Schumann, Eusebio e Florestano, sono presenti nei tre movimenti di questa Fantasia, interpretata dal pianista russo pensandola quale una forma sonata e come se i due alter ego schumanniani non fossero da concepirsi in antitesi, ma invece le due facce della stessa medaglia. Trifonov coniuga l’energia di un trentaduenne e la maturità di un decano del pianoforte: dominio assoluto delle dinamiche, sempre ben lumeggiate, sfumature di suono calibrate alla perfezione, fraseggio lunghissimo. Il pianista rivela bene l’energia, le qualità lunari, un po’ pazze, al confine con l’esaltazione nel movimento centrale della Fantasia e altrettanto sapientemente le qualità sognanti del primo e del terzo movimento. Come noto, E.T.A. Hoffmann scriveva che la musica schiude il regno dell’infinito: se fosse stato qui con noi, Trifonov avrebbe di certo fatto la sua felicità.
Nella Fantasia in do minore di Mozart, l’interprete rivela un suono quasi fortepianistico, molto controllato, con l’accentuazione chiaroscurale degli accenti forti, alieno da qualsivoglia retorica: nelle pause drammatiche, nell’atmosfera del pezzo (e degli ultimi, in generale), c’è chi ha sentito un’atmosfera pre-romantica. Questa Fantasiafunziona un poco, se usassimo il gergo psicanalitico, da “presa di realtà”: torniamo quindi un po’ coi piedi per terra. Anche Mozart, neppure quello pre-romantico, mai è lontano dall’atteggiamento dell’adulto che resta in contatto col sé infantile - come Ciajkovskij -: sentimento che è stupore per ciò che si può scoprire dentro di sé, dove nessuno può entrare e dove la luce non penetra.
Sogni di sole e giochi di luce offre Gaspar de la nuit, che qui pare soprattutto un pezzo di raccordo, gradino da salire verso l’estasi scriabiniana: sottolineeremo, dunque, come in Ondine i tasti non siano più d’avorio e non paiano opporre alcuna resistenza alle dita del pianista, divenuti onde di materiale acqueo, modellato a suo piacimento. Il virtuosismo quasi lisztiano di Scarbo rende l’atmosfera rovente – Trifonov conosce evidentemente bene i gusti del suo pubblico – e incendia la sala. Nella Quinta Sonata di Scriabin, senza freni e senza limiti corporei, Trifonov sembra letteralmente fondersi con lo strumento: visionario, estatico, spossato è tutt’uno con esso, in un chiaroscuro che sa di Piranesi. Standing ovation e dieci minuti finali di applausi, coronati da due bis.
Una nota sull’attenzione, il silenzio e il rispetto di spettatrici e spettatori di tutte le età – che non smettono, neanche dopo anni, di meravigliarci – i quali sono testimoni viventi di una civiltà che è cresciuta con questa musica, attribuendogli il valore che merita e mettendo le creazioni dello spirito in cima ai valori per cui vale la pena di vivere.
La sera del 28 luglio 2023, nell’ambito dell’Ouverture spirituelle, i Wiener Philharmoniker diretti da Christian Thielemann hanno dato vita all’amatissimo Deutsches Requiem di Brahms. Fin da subito stupisce l’amalgama orchestrale, il colore cinereo del suono e l’attacco del coro (Wiener Singverein) quasi smaterializzato che, aereo, intona “Selig sind” (“Beati quelli che soffrono”, in fa maggiore, e poi “beati coloro che sono morti” chiuderà il Requiem, la vita e la morte, secondo il topos musicale della circolarità – “ma fin est ma commencement” intonava Machaut nel Trecento): questa sofferenza che i beati portano su di sé è leggera, già proiettata verso una morte intesa come sollievo dalle fatiche mondane.
In “Simile ad erba è l'uomo” (si bemolle minore) Thielemann sceglie per questa marcia un tempo scorrevole, indicando leggerezza ai timpani, sottraendo qualsiasi retorica; similmente, in “Ricordami, Signore, la mia natura mortale” (ma letteralmente “insegnami”) ascoltiamo grande dolcezza: la stentorea voce brunita del baritono Michael Volle, la sua dizione, quintessenza della germanicità, tratteggia senza chiaroscuri l’accettazione già avvenuta dell’ineluttabile. Il ritmo incalzante, senza rallentamenti che suonerebbero enfatici, è ancora la cifra di “Quanto amabili sono le tue dimore”, sezione in cui la fusione di massa orchestrale e coro, istruito da Johannes Prinz, risalta al meglio, sottolineando la tenerezza brahmsiana e facendo procedere il raccoglimento interiore proiettandolo verso “Oggi la tristezza vi opprime” dove la splendida voce del soprano Elsa Dreisig ci porta su altezze talmente vertiginose che sembra mancare l’ossigeno. Thielemann, sempre controllatissimo, adotta il tono tragico per “In questa terra siamo privi di una stabile dimora” che diviene, idealmente, il cuore di tutto il Requiem: le pause iperdrammatiche impresse a questa parte non fan altro che sottolineare le domande universali intonate da Brahms (“Morte, dov'è il tuo artiglio? Inferno dove è la tua vittoria?”, Ebrei 13, 14). La beatitudine della morte, cullante delicatezza di ninna nanna, giunge alle nostre orecchie come una vibrazione universale, capace d’affrescare un destino comune.
A mani aperte, quasi orante, Christian Thielemann si prende un lunghissimo momento di silenzio alla fine di quest’esperienza anzitutto spirituale, ancor prima che musicale: sarà difficile dimenticare un Deutsches Requiem così.
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