Il rarefatto mondo sonoro di Sciarrino

In prima mondiale alla Scala Ti vedo, ti sento, mi perdo, la nuova opera del compositore palermitano

Ti vedo, ti sento, mi perdo di Salvatore Sciarrino
Ti vedo, ti sento, mi perdo di Salvatore Sciarrino (foto di Matthias Baus)
Recensione
classica
Teatro alla Scala di Milano
Salvatore Sciarrino - Ti vedo, ti sento, mi perdo
14 Novembre 2017

In attesa di Stradella. Così recita il sottotitolo dell’opera di Salvatore Sciarrino presentata in prima mondiale al Teatro alla Scala, evento di particolare rilievo non solo della Stagione d’Opera 2016/17 ma anche del 26° Festival L’eco delle voci che quest’anno Milano Musica dedica al compositore palermitano in occasione del suo 70° compleanno. I due atti di Ti vedo, ti sento, mi perdo hanno potuto giovarsi innanzitutto sia dei forti contenuti suggestivi che il libretto scritto dallo stesso Sciarrino conteneva, sia del fascino di un allestimento e di una regia particolarmente riusciti: la scena aperta che alludeva ai diversi livelli prospettici, l’eleganza dei costumi ricchi di colori e allusivi di un periodo barocco evocato ma mai imposto come unico contesto di riferimento, il gioco di movimenti che si creava soprattutto grazie ad alcuni episodi comici inseriti nella trama. Sulla figura misteriosa e avventurosa di Alessandro Stradella, protagonista in absentia dell’opera, si concentrava buona parte della narrazione, rievocando le sue vicissitudini passionali, accennando passaggi della sua musica, commentandone la bellezza e, infine, aspettando invano l’arrivo del musicista, di cui i personaggi sul palco scopriranno la fine tragica per mano di sicari.

“Oltre la ragione si stende la musica”, uno dei versi affidati al coro, non pare addirsi del tutto a Salvatore Sciarrino, le cui indagini nelle profondità della coscienza artistica si giovano invero di una raffinata componente razionale e di una forte consapevolezza storica, con cui continua a portare alla ribalta quella che chiama “l’attualità oscurata del comporre”. Un comporre che tuttavia punta ancora molto sulla destrutturazione del linguaggio musicale (o di quello che ne resta), sulla capacità di sottoporre all’attenzione dell’ascoltatore un personalissimo caleidoscopio di schegge sonore, soprattutto quando al centro della scrittura c’è la voce umana. Pregevole e assai duttile quella del soprano Laura Aikin, che nei panni della Cantatrice – forse l’unico personaggio con un quasi esclusivo impegno canoro – si è cimentata con successo nell’infinita serie di glissandi, di frammentazioni delle parole e di problematici silenzi che, sulla scena, scandivano le prove di una cantata barocca. Durante le quali, da personaggio invisibile, Stradella si è più volte tramutato in presenza sonora reale: le sue musiche, pur rivisitate da Sciarrino, hanno portato non tanto la testimonianza di uno autore che per il suo tempo poteva risultare sperimentatore, quanto piuttosto evocato il ricordo di un mondo sonoro non più possibile, quello di un linguaggio che muoveva i primi passi nella nuova prospettiva della tonalità. Sciarrino è ben consapevole di tutto questo e sembra volerlo continuamente riaffermare all’ascoltatore contemporaneo, ma la sua musica sembra configurarsi sempre più come un “non linguaggio” che si sta avvicinando al silenzio totale con problematica rassegnazione. Pubblico scaligero plaudente, ma l’opera – proposta con passione dall’intero cast sulla scena e dall’Orchestra del Teatro alla Scala, diretti da Maxime Pascal – se testimonia la totale e feconda libertà creativa dell’autore, tende d’altra parte a far sorgere nuovi interrogativi sul futuro del teatro musicale: l’attesa sembra continuare e stavolta non si può pensare che sia Stradella a colmarla.

 

 

 

 

 

 

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