I Quarant’anni del Festival della Valle d’Itria
Bilancio del Festival 2014
Recensione
classica
Martina Franca, la cittadina barocca sulle colline della Murgia, il cuore della Puglia, ha celebrato dal 18 luglio al 3 agosto 2014 i primi quaranta anni del Festival della Valle d’Itria. Si tratta di un appuntamento annuale ormai immancabile per gli appassionati di opere rare che giungono da varie parti del globo. Nel panorama dei festival musicali estivi, non calcolando quelli che miscelano vari generi come Spoleto, Ravenna o quelli monotematici come il ROF di Pesaro, il Valle d’Itria è l’unico festival italiano che offra plurimi e diversificati allestimenti operistici capaci di attrarre turismo culturale. Per tanti anni questa rassegna ha rappresentato l’unica occasione di assistere a spettacoli di livello internazionale per la vasta area dell’Italia meridionale al di sotto di Roma e Macerata, con le eccezioni di Napoli e della Sicilia: pensiamo ai quasi due decenni di chiusura del teatro Petruzzelli di Bari. Ho potuto seguire quasi tutte le edizioni del Festival di Martina Franca a partire dalla seconda, nel 1976, che presentò il Tancredi di Rossini con Cuberli e Dupuy seguito, l’anno successivo, dall’Antigone di Traetta. Se ho mancato un paio di edizioni è stato per soggiorni all’estero, ma le incisioni discografiche e in qualche caso in dvd hanno in parte sopperito (per esempio per la Reine de Saba di Gounod del 2001). Il programma scelto per la quarantesima edizione era coerente ed estremamente accattivante per i fedeli seguaci delle rarità. Si andava dalle prime esecuzioni moderne de La lotta di Ercole con Acheloo del secentesco Steffani e dell’Armida di Traetta per Vienna, alla non frequente Donna Serpente di Casella per il Novecento, con un omaggio conclusivo all’opera che aveva inaugurato il primo festival, Orfeo ed Euridice di Gluck. Comincerò con alcuni commenti su queste quattro opere e poi alcune considerazioni generali.
L’opera più antica era in realtà un divertimento di corte in unico tempo che Agostino Steffani aveva scritto nel 1689, proprio all’inizio del suo servizio ad Hannover, col titolo La lotta d’Ercole con Acheloo. Fin dalla Ouverture alla francese e poi nei vari momenti in cui gli strumenti variano le deliziose melodie delle arie, si comprende bene perché Steffani, la cui carriera ecclesiastica e diplomatica fu ancor più prestigiosa di quella di compositore, da anni è considerato dagli specialisti un precursore di Händel, soprattutto nei duetti vocali. Nel chiostro di San Domenico di Martina Franca, per il secondo anno recuperato come spazio scenico, il 25 luglio una piccola orchestra moderna (scelta improvvida) contrastava con il ricco continuo di strumenti storici, diretti entrambi da Antonio Greco con un cast scelto tra i giovani allievi dell’Accademia del Belcanto Celletti in cui risaltava su tutti il soprano Federica Pagliuca (Deianira), una personalità di cui sentiremo parlare e che si sta perfezionando a Napoli. Il regista Benedetto Sicca, al suo debutto nel mondo del teatro d’opera ma proveniente da un’alta scuola, ha scelto una ambientazione acquatica dell’esile racconto mitico da Ovidio (l’oppositore di Ercole per ottenere la mano di Deianira, Acheloo, è divinità fluviale dalle mille forme), valorizzando i corpi sinuosi di quattro danzatori della Fattoria Vittadini. Le altre voci erano Dara Savinova (Ercole), Angelo Strano (Acheloo) e Aurelio Schiavoni (Eneo).
Nell’atrio del Palazzo Ducale, domenica 27 luglio, era allestita la prima moderna di Armida di Tommaso Traetta, compositore pugliese (nato a Bitonto nel 1727 e morto a Venezia nel 1779) che fu tra i protagonisti della riforma del melodramma alla metà del suo secolo. La maggiore sorpresa di questa partitura riscoperta era la sua somiglianza con le atmosfere del capolavoro di Gluck Orfeo ed Euridice, che in effetti fu presentato per la stessa corte di Vienna nella stessa forma di “festa teatrale” appena un anno dopo Traetta, nel 1762. Lo sforzo di sintesi tra opera francese ed italiana attuato da Traetta (e più di lui da Gluck) in territorio tedesco è una delle sfide più interessanti della storia del melodramma. L’allestimento martinese ha utilizzato la partitura preparata da una specialista, Luisa Cosi, affidata alla direzione di Diego Fasolis, che è riuscito con l’ausilio di numerose inserzioni di strumenti storici, soprattutto tra i fiati, a far suonare l’orchestra in maniera adeguata. Ci si attendeva molto dalla regia della francese Juliette Deschamps che però non ha completamente convinto, presentando belle idee ma scollegate tra loro. Solo donne in questo caso anche nei ruoli pensati per il vertiginoso virtuosismo dei castrati: Marina Comparato (Rinaldo), Maria Meerovich (Artemidoro) e inoltre Federica Carnevale (Fenicia) e Leslie Visco (Argene) con i due tenori Leonardo Cortellazzi (Idraote) e Mert Sungu (Ubaldo) e il coro della Filarmonica di Stato di Cluj-Napoca. La vera protagonista dell’opera è Armida, interpretata in maniera estremamente coinvolgente (soprattutto nella ricca messe di fioriture che cesellano ogni ripetizione d’aria e nella generosa adesione attoriale) dalla specialista Roberta Mameli, il cui fisico slanciato era valorizzato dai bei costumi di Vanessa Sannino.
L’idea di chiudere il quarantesimo anno del Festival con un allestimento (antologico) dell’Orfeo ed Euridice di Gluck, che era stata l’opera inaugurale nel 1975 nella versione francese, presentata per la prima volta a Martina il 1° agosto secondo l’ originale di Vienna del 1762, ha consentito un prezioso confronto ravvicinato con l’Armida. Teniamo conto che nel 2009 il Valle d’Itria aveva allestito per la prima volta anche la versione napoletana del 1774 di Orfeo ed Euridice: ecco un esempio dei meriti culturali di questa rassegna.
L’opera novecentesca allestita in questa edizione del Festival era La donna serpente di Alfredo Casella, andata in scena per la prima volta a Roma nel 1932, poi ripresa solo un paio di volte nel secolo scorso fino all’ultima esecuzione avvenuta a Palermo nel 1982. L’interesse come “rarità” era dunque forte anche per questo titolo, che in più vantava altri due motivi di richiamo: la direzione di Fabio Luisi, tornato a Martina Franca – dove aveva avuto il suo esordio professionale – dopo decenni di assenza e con bella carriera internazionale, e la regia di Arturo Cirillo, una delle più significative personalità del teatro napoletano d’oggi. In effetti il lavoro registico ha reso godibile uno spettacolo che l’eterogeneità della musica, per quanto bene interpretata, rischiava di rendere frammentario e troppo lungo. La compagnia di canto era convincente e posso ricordarla nel suo insieme: Angelo Villari, Zuzana Markova, Vanessa Goikoetxea, Anita Jankovska, Candida Guida, Simon Edwards, Domenico Colaianni, Pavol Kuban, Timothy Oliver, Davide Giangregorio, Carmine Monaco, Giorgio Celenza, Francesco Castoro, Carolina Lippo, Rocco Cavalluzzi. Anche in questa produzione, come in tutte le altre dell’anno, in grande evidenza i giovani danzatori della Fattoria Vittadini. Ma Casella fino alla fine non decolla e resta il recupero meno riuscito di questa edizione peraltro ricca di gustose rarità.
Avevo annunciato un commento generale. Il bilancio dei quaranta anni del Valle d’Itria è affidato ad un libro (Il Festival si racconta) edito per l’occasione dalla Fondazione Paolo Grassi, a sua volta sorta come istituto di ricerca e didattica a sostegno del Festival, intorno al lascito morale e anche fisico (la biblioteca) di Paolo Grassi, che fu il vero creatore della rassegna martinese. Con la rigorosa direzione di Rino Carrieri, la Fondazione sta costruendo un percorso intellettuale parallelo ma anche indipendente rispetto al Festival, essendo attiva tutto l’anno. Il presidente Franco Punzi è a capo del Festival quasi dall’inizio (è stato a lungo anche sindaco di Martina Franca) e il suo ruolo nella rete europea dei Festival ha ulteriormente allargato la credibilità internazionale della rassegna, che però ha da sempre una spada di Damocle puntata sul filo della propria sopravvivenza: l’entità dei finanziamenti, pubblici ovviamente perché nell’Italia del sud non esiste altro per sostenere la cultura. Le voci di un disimpegno della Regione Puglia (che aveva creato una legge speciale tanti anni fa per finanziare il Valle d’Itria), dopo il brutale ritiro della Provincia di Taranto, potrebbero seriamente mettere in discussione una edizione 41, un rischio endemico ma mai così concreto per un Festival dal budget già incredibilmente basso, grazie all’utilizzazione massima delle risorse locali per ogni aspetto della gestione organizzativa, logistica e produttiva (da qualche anno implementata dai laboratori del teatro Petruzzelli di Bari). Per ridurre i costi da sempre si utilizza in pratica una sola orchestra (Internazionale d’Italia), un coro dell’est e cast in gran parte formati da allievi dei corsi della Accademia del Belcanto Celletti (tranne le prime parti o le più complesse). Da quest’anno tornano le coproduzioni, altro mezzo per ridurre i costi ampliando la risonanza delle riscoperte martinesi: La donna serpente è in coproduzione con il Teatro Regio di Torino e al San Carlo di Napoli andrà in scena il 25 settembre prossimo Don Checco del barese Nicola De Giosa, coproduzione che porterà quest’opera buffa napoletana del 1850 nell’edizione 41 del Festival. Alberto Triola, il direttore artistico dell’ultima fase del Festival che dura da quattro anni, dopo le due lunghe ere Celletti e Segalini, ha voluto cambiare di netto l’impostazione mai modificata dopo la nascita dai suoi predecessori: invece di una rassegna quasi esclusivamente di Belcanto ottocentesco, ogni edizione dal 2010 si suddivide in tre fasce cronologiche, il Novecento, il Settecento (con uno sguardo privilegiato ai musicisti nati in Puglia e divenuti famosi come “napoletani”) e con sempre maggiore presenza il Seicento. Le riscoperte in prima esecuzione moderna non bastano tuttavia a tutelare l’immagine del festival dal punto di vista del rigore filologico e troppi sono i compromessi nell’uso di uno strumentario misto e dei “controtenori”, voci di falsetto inventate nel Novecento ovviamente inadeguate alle inarrivabili parti dei castrati, se non per la presenza scenica. La scelta delle partiture, soprattutto quelle settecentesche, volendo restare come dichiarato nello sterminato patrimonio della “scuola napoletana” (e del suo maggioritario apporto “pugliese”) non può continuare ad essere casuale ma dovrebbe derivare da un preciso progetto di ricerca, legato a istituti specialistici italiani e stranieri che, per esempio, porti ad una collana di edizioni critiche. Infine per il Novecento le sole due vere e durature riscoperte finora portate nel nuovo corso sono state Napoli Milionaria di Nino Rota nel 2010 e Maria di Venosa di Francesco d’Avalos lo scorso anno. Si può continuare a cercare saltuariamente altri capolavori del genere, ma temo non ne restino poi tanti dimenticati. Viceversa, un ritorno allo sterminato repertorio ottocentesco consentirebbe finalmente di valutare appieno coloro che, esempio supremo Mercadante, restano buchi neri tra Rossini e Verdi. Senza dimenticare che Martina Franca è la città del barocco per eccellenza, e in qualsiasi nazione europea questo elemento sarebbe stato valorizzato in ben altre forme dalle scelte musicali in quel repertorio oggi assai più popolare ed amato di quel che i direttori dei teatri italiani credano.
L’opera più antica era in realtà un divertimento di corte in unico tempo che Agostino Steffani aveva scritto nel 1689, proprio all’inizio del suo servizio ad Hannover, col titolo La lotta d’Ercole con Acheloo. Fin dalla Ouverture alla francese e poi nei vari momenti in cui gli strumenti variano le deliziose melodie delle arie, si comprende bene perché Steffani, la cui carriera ecclesiastica e diplomatica fu ancor più prestigiosa di quella di compositore, da anni è considerato dagli specialisti un precursore di Händel, soprattutto nei duetti vocali. Nel chiostro di San Domenico di Martina Franca, per il secondo anno recuperato come spazio scenico, il 25 luglio una piccola orchestra moderna (scelta improvvida) contrastava con il ricco continuo di strumenti storici, diretti entrambi da Antonio Greco con un cast scelto tra i giovani allievi dell’Accademia del Belcanto Celletti in cui risaltava su tutti il soprano Federica Pagliuca (Deianira), una personalità di cui sentiremo parlare e che si sta perfezionando a Napoli. Il regista Benedetto Sicca, al suo debutto nel mondo del teatro d’opera ma proveniente da un’alta scuola, ha scelto una ambientazione acquatica dell’esile racconto mitico da Ovidio (l’oppositore di Ercole per ottenere la mano di Deianira, Acheloo, è divinità fluviale dalle mille forme), valorizzando i corpi sinuosi di quattro danzatori della Fattoria Vittadini. Le altre voci erano Dara Savinova (Ercole), Angelo Strano (Acheloo) e Aurelio Schiavoni (Eneo).
Nell’atrio del Palazzo Ducale, domenica 27 luglio, era allestita la prima moderna di Armida di Tommaso Traetta, compositore pugliese (nato a Bitonto nel 1727 e morto a Venezia nel 1779) che fu tra i protagonisti della riforma del melodramma alla metà del suo secolo. La maggiore sorpresa di questa partitura riscoperta era la sua somiglianza con le atmosfere del capolavoro di Gluck Orfeo ed Euridice, che in effetti fu presentato per la stessa corte di Vienna nella stessa forma di “festa teatrale” appena un anno dopo Traetta, nel 1762. Lo sforzo di sintesi tra opera francese ed italiana attuato da Traetta (e più di lui da Gluck) in territorio tedesco è una delle sfide più interessanti della storia del melodramma. L’allestimento martinese ha utilizzato la partitura preparata da una specialista, Luisa Cosi, affidata alla direzione di Diego Fasolis, che è riuscito con l’ausilio di numerose inserzioni di strumenti storici, soprattutto tra i fiati, a far suonare l’orchestra in maniera adeguata. Ci si attendeva molto dalla regia della francese Juliette Deschamps che però non ha completamente convinto, presentando belle idee ma scollegate tra loro. Solo donne in questo caso anche nei ruoli pensati per il vertiginoso virtuosismo dei castrati: Marina Comparato (Rinaldo), Maria Meerovich (Artemidoro) e inoltre Federica Carnevale (Fenicia) e Leslie Visco (Argene) con i due tenori Leonardo Cortellazzi (Idraote) e Mert Sungu (Ubaldo) e il coro della Filarmonica di Stato di Cluj-Napoca. La vera protagonista dell’opera è Armida, interpretata in maniera estremamente coinvolgente (soprattutto nella ricca messe di fioriture che cesellano ogni ripetizione d’aria e nella generosa adesione attoriale) dalla specialista Roberta Mameli, il cui fisico slanciato era valorizzato dai bei costumi di Vanessa Sannino.
L’idea di chiudere il quarantesimo anno del Festival con un allestimento (antologico) dell’Orfeo ed Euridice di Gluck, che era stata l’opera inaugurale nel 1975 nella versione francese, presentata per la prima volta a Martina il 1° agosto secondo l’ originale di Vienna del 1762, ha consentito un prezioso confronto ravvicinato con l’Armida. Teniamo conto che nel 2009 il Valle d’Itria aveva allestito per la prima volta anche la versione napoletana del 1774 di Orfeo ed Euridice: ecco un esempio dei meriti culturali di questa rassegna.
L’opera novecentesca allestita in questa edizione del Festival era La donna serpente di Alfredo Casella, andata in scena per la prima volta a Roma nel 1932, poi ripresa solo un paio di volte nel secolo scorso fino all’ultima esecuzione avvenuta a Palermo nel 1982. L’interesse come “rarità” era dunque forte anche per questo titolo, che in più vantava altri due motivi di richiamo: la direzione di Fabio Luisi, tornato a Martina Franca – dove aveva avuto il suo esordio professionale – dopo decenni di assenza e con bella carriera internazionale, e la regia di Arturo Cirillo, una delle più significative personalità del teatro napoletano d’oggi. In effetti il lavoro registico ha reso godibile uno spettacolo che l’eterogeneità della musica, per quanto bene interpretata, rischiava di rendere frammentario e troppo lungo. La compagnia di canto era convincente e posso ricordarla nel suo insieme: Angelo Villari, Zuzana Markova, Vanessa Goikoetxea, Anita Jankovska, Candida Guida, Simon Edwards, Domenico Colaianni, Pavol Kuban, Timothy Oliver, Davide Giangregorio, Carmine Monaco, Giorgio Celenza, Francesco Castoro, Carolina Lippo, Rocco Cavalluzzi. Anche in questa produzione, come in tutte le altre dell’anno, in grande evidenza i giovani danzatori della Fattoria Vittadini. Ma Casella fino alla fine non decolla e resta il recupero meno riuscito di questa edizione peraltro ricca di gustose rarità.
Avevo annunciato un commento generale. Il bilancio dei quaranta anni del Valle d’Itria è affidato ad un libro (Il Festival si racconta) edito per l’occasione dalla Fondazione Paolo Grassi, a sua volta sorta come istituto di ricerca e didattica a sostegno del Festival, intorno al lascito morale e anche fisico (la biblioteca) di Paolo Grassi, che fu il vero creatore della rassegna martinese. Con la rigorosa direzione di Rino Carrieri, la Fondazione sta costruendo un percorso intellettuale parallelo ma anche indipendente rispetto al Festival, essendo attiva tutto l’anno. Il presidente Franco Punzi è a capo del Festival quasi dall’inizio (è stato a lungo anche sindaco di Martina Franca) e il suo ruolo nella rete europea dei Festival ha ulteriormente allargato la credibilità internazionale della rassegna, che però ha da sempre una spada di Damocle puntata sul filo della propria sopravvivenza: l’entità dei finanziamenti, pubblici ovviamente perché nell’Italia del sud non esiste altro per sostenere la cultura. Le voci di un disimpegno della Regione Puglia (che aveva creato una legge speciale tanti anni fa per finanziare il Valle d’Itria), dopo il brutale ritiro della Provincia di Taranto, potrebbero seriamente mettere in discussione una edizione 41, un rischio endemico ma mai così concreto per un Festival dal budget già incredibilmente basso, grazie all’utilizzazione massima delle risorse locali per ogni aspetto della gestione organizzativa, logistica e produttiva (da qualche anno implementata dai laboratori del teatro Petruzzelli di Bari). Per ridurre i costi da sempre si utilizza in pratica una sola orchestra (Internazionale d’Italia), un coro dell’est e cast in gran parte formati da allievi dei corsi della Accademia del Belcanto Celletti (tranne le prime parti o le più complesse). Da quest’anno tornano le coproduzioni, altro mezzo per ridurre i costi ampliando la risonanza delle riscoperte martinesi: La donna serpente è in coproduzione con il Teatro Regio di Torino e al San Carlo di Napoli andrà in scena il 25 settembre prossimo Don Checco del barese Nicola De Giosa, coproduzione che porterà quest’opera buffa napoletana del 1850 nell’edizione 41 del Festival. Alberto Triola, il direttore artistico dell’ultima fase del Festival che dura da quattro anni, dopo le due lunghe ere Celletti e Segalini, ha voluto cambiare di netto l’impostazione mai modificata dopo la nascita dai suoi predecessori: invece di una rassegna quasi esclusivamente di Belcanto ottocentesco, ogni edizione dal 2010 si suddivide in tre fasce cronologiche, il Novecento, il Settecento (con uno sguardo privilegiato ai musicisti nati in Puglia e divenuti famosi come “napoletani”) e con sempre maggiore presenza il Seicento. Le riscoperte in prima esecuzione moderna non bastano tuttavia a tutelare l’immagine del festival dal punto di vista del rigore filologico e troppi sono i compromessi nell’uso di uno strumentario misto e dei “controtenori”, voci di falsetto inventate nel Novecento ovviamente inadeguate alle inarrivabili parti dei castrati, se non per la presenza scenica. La scelta delle partiture, soprattutto quelle settecentesche, volendo restare come dichiarato nello sterminato patrimonio della “scuola napoletana” (e del suo maggioritario apporto “pugliese”) non può continuare ad essere casuale ma dovrebbe derivare da un preciso progetto di ricerca, legato a istituti specialistici italiani e stranieri che, per esempio, porti ad una collana di edizioni critiche. Infine per il Novecento le sole due vere e durature riscoperte finora portate nel nuovo corso sono state Napoli Milionaria di Nino Rota nel 2010 e Maria di Venosa di Francesco d’Avalos lo scorso anno. Si può continuare a cercare saltuariamente altri capolavori del genere, ma temo non ne restino poi tanti dimenticati. Viceversa, un ritorno allo sterminato repertorio ottocentesco consentirebbe finalmente di valutare appieno coloro che, esempio supremo Mercadante, restano buchi neri tra Rossini e Verdi. Senza dimenticare che Martina Franca è la città del barocco per eccellenza, e in qualsiasi nazione europea questo elemento sarebbe stato valorizzato in ben altre forme dalle scelte musicali in quel repertorio oggi assai più popolare ed amato di quel che i direttori dei teatri italiani credano.
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