Fuori dal tempio: La Bohème a Broadway

E' difficile negare l'importanza di questa Bohème firmata -- è il caso di dirlo -- dal regista australiano Baz Luhrman e presentata al Broadway Theatre di New York (la prima è scattata l'8 di Dicembre, ma si anticipano repliche per parecchi mesi). Ciò vale non tanto per il successo commerciale e pubblicitario a cui lo spettacolo sembra inevitabilmente destinato, quanto per la regia, la quale invita a ripensare i fondamenti storici e estetici della messinscena operistica. L'operazione di Luhrman e soci è in parte polemica, ha cioè il fine di de-feticizzare il momento dell'esecuzione e denunciare il culto della voce e dei cantanti, mostrando come una esecuzione non più che adeguata sia in realtà più che sufficiente. Come al cinema, dove non importa che la musica venga eseguita nel migliore modo possibile dal migliore degli organici, in questa Bohème la partitura è in tutto e per tutto funzionale al portato drammatico, colto dallo spettatore non tanto con gli occhi quanto con la propria immaginazione.

Recensione
classica
Broadway Theatre New York
Giacomo Puccini - Baz Lurhmann
08 Dicembre 2002
E' difficile negare l'importanza di questa Bohème firmata -- è il caso di dirlo -- dal regista australiano Baz Luhrman e presentata al Broadway Theatre di New York (la prima è scattata l'8 di Dicembre, ma si anticipano repliche per parecchi mesi). Ciò vale non tanto per il successo commerciale e pubblicitario a cui lo spettacolo sembra inevitabilmente destinato, quanto per la regia, la quale invita a ripensare i fondamenti storici e estetici della messinscena operistica. Si consideri il modo in cui Luhrman presenta Musetta nel secondo atto: colpiscono immediatamente la bellezza della figura così come il vestito, più rosso del rosso, e i suoi gesti esagerati ma sinuosi. A completare il personaggio, i sopratitoli in inglese -- sì, i sopratitoli -- cambiano di dimensioni e carattere, sottolineandone, con sorprendente mimesi tipografica, le manie, i tic, la civetteria e infine il vero e proprio esibizionismo. In uno dei momenti più straordinari dello spettacolo, un suo sguaiato "Non seccar!" ad Alcindoro viene non solo tradotto, ma ingigantito sul tabellone elettronico, come si vede solo nei fumetti. Cattivo gusto? Forse. Eppure in quel momento, davvero liberatorio, l'attenzione esagerata di Luhrman verso l'aspetto squisitamente visivo della messinscena acquista un senso ben preciso: l'effetto non è semplicemente quello di tradurre visivamente la partitura, in maniera tutto sommato ridondante, bensì di amplificarne l'impatto fino ad illuminarla di luce affatto nuova, inusitata. Detto altrimenti, il risultato non è tanto quello di subordinare la musica al gioco straordinario di luci, colori e gesti visto sul palcoscenico, quanto di rimetterla in gioco. Le scene, i costumi, la gestualità vengono utilizzate da Luhrman non come mero pretesto per l'esibizione di una vocalità in cui tutto si consuma, ma come estensione del lavoro di direzione d'orchestra. Non a caso, ad eccezione dei quadri più statici del terzo Atto, lo spettacolo non crea mai quella impressione di "scollamento" tra i diversi media -- musica, scenografie, recitazione -- così caratteristica dell'opera. Quanto a Musetta, peraltro, Luhrman ha perfettamente ragione: la vocalità del personaggio è proprio da fumetto. Molto è stato scritto e detto qui a New York sulla qualità modesta dei cantanti, scelti più per l'età e l'avvenenza fisica che non per le doti vocali. Ebbene sì, le voci non sono straordinarie. Ad eccezione di Jessica Comeau (Musetta), forse nessuno dei cantanti sentiti il 10 Dicembre ha mostrato di eccellere. Ekaterina Solovyeva, pur convincente nel registro basso e sui toni più delicati e soffusi, manca di espressività nel registro più alto. David Miller (Rodolfo) ha cantato sicuro sulle note alte, ma della sua voce non hanno colpito né il colore né la potenza. Con otto spettacoli a settimana, la produzione ha scelto di far ruotare tre coppie di protagonisti (oltre ai sopradetti, Wei Huang-Alfred Boe e Lisa Hopkins-Jesus Garcia). A detta delle reazioni della stampa newyorchese, la coppia Solovyeva-Miller è la migliore. C'è dunque da immaginarsi voci ancora più leggere e meno versatili per i duo Huang-Boe e Hopkins-Garcia. Quanto all'orchestra, l'organico è stato ridotto a 28 strumenti per problemi di spazio. Molte parti sono state aggiunte elettronicamente, e la direzione non ha brillato né per scelta di tempi né -- com'è ovvio -- per sonorità. L'amplificazione -- d'obbligo a Broadway -- non ha creato eccessivi problemi, anche perché è consistita semplicemente nel creare l'illusione del riverbero, con gli altoparlanti rivolti verso le pareti (solo in occasione di un qualche improvviso silenzio ci si è potuti accorgere del riverbero creato artificialmente). C'è comunque da sospettare che a causa della amplificazione -- per quanto accorta -- le voci abbiano perso in multidimensionalità e naturalezza, soprattutto se sentite dalla balconata. E' chiaro che la disponibilità a scendere a tali compromessi sul piano strettamente musicale ha a che fare con dei limiti di spazio, la necessità di attrarre un pubblico avvezzo al musical e, non ultimo, un calcolo commerciale. Ma piace pensare che l'operazione di Luhrman e soci sia anche polemica, abbia cioè il fine di de-feticizzare il momento dell'esecuzione strumentale e soprattutto il culto della voce, mostrando come una esecuzione non più che adeguata sia in realtà più che sufficiente. Come al cinema, dove non importa che la musica venga eseguita nel migliore modo possibile dal migliore degli organici, in questa Bohème la partitura è in tutto e per tutto funzionale al portato drammatico, colto dallo spettatore non tanto con gli occhi quanto con la propria immaginazione. C'è un rischio in tutto ciò, naturalmente, ed è quello di feticizzare i costumi, le luci e, in ultima istanza, la regia stessa (cosa che probabilmente non dispiacerà a Luhrman). Ciò accade in verità solo nel secondo atto, dove il virtuosismo tecnico della messinscena raggiunge livelli parossistici senza aggiungere alcunché alla comprensione del dramma. La scena sulla piazza del Café Momus si illumina gradualmente fino a irrompere nella platea stessa, con folle mosse con gran maestria, bordelli ai lati (con tanto di prostitute in bella vista), e costumi straordinari per colori e fattura. L'opera è stata ambientata nella Parigi della fine degli anni cinquanta, e in mostra vediamo scorrere mamme borghesi, squillo di alto lignaggio in pelliccia bianca, innamorati che sembrano appena usciti dalle fotografie di Doisneau, e perfino un tipetto che fa il verso a Simone de Beauvoir. Il caffé lo si vede inizialmente solo in lontananza ma improvvisamente, all'arrivo di Musetta, un cambio di scena lo porta in primo piano, come in un classico cambio di inquadratura al cinema. Tanta destrezza desta meraviglia, ma non tocca nel profondo. Luhrman, consapevolmente o meno, rimane fedele allo spirito barocco dello spettacolo operistico. A farne le spese non è tanto la musica quanto lo spirito di nostalgia che pervade La Bohème sin dalla prima battuta, la consapevolezza dell'ineluttabilità della fine della gioventù, e della vita stessa, con cui l'opera si chiude.

Interpreti: David Miller/Jesus Garcia/Alfred Boe, Ben Davis, Chlöe Wright/Jessica Comeau, Ekaterina Solovyeva/Lisa Hopkins/Wei Huang, David Webb, Daniel Okulitch, Adam Grupper, Daniel Entriken, William Youmans, Sean Cooper, Graham Fandrei

Regia: Baz Luhrman

Direttore: Constantine Kitsopoulos

Coro: Coro di voci bianche: Ryan Andres, Joseph Jonas, david Mathews, Suzanna Mathews, Jennifer Olsen, Samantha Massell Rakosi, Melissa Remo, Matthew Salvatore

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