Fra odalische sognanti e naufraghi da salotto
A Salisburgo la Danae di Richard Strauss e l’Angelo sterminatore di Thomas Adès
Recensione
classica
Pochi lavori hanno un significato speciale per il luogo che li ha visti nascere. È certamente il caso per Salisburgo de Gli amori di Danae, penultima opera di Richard Strauss. Compiuta per il festival della cittadina austriaca proprio negli anni più duri della guerra, non vide mai la luce della scena Strauss vivente, per le tensioni che seguirono il fallito attentato a Hitler nel 1944. Ci si dovette accontentare di una prova generale in forma privata diretta da Clemens Kraus alla presenza dell’ottantenne compositore. Il racconto di Rudolf Hartmann (ripreso nella biografia straussiana di Michael Kennendy) fa rivivere il carico emotivo di quell’esecuzione:
"Profondamente commosso e toccato nell’intimo, Strauss sentì in maniera quasi fisica la nostra divinità, l’arte […] Seguirono momenti di profondo silenzio dopo che le ultime note cessarono […] Strauss guardò oltre il parapetto della buca dell’orchestra, sollevò le mani con gesto di gratitudine e parlò all’orchestra con la voce spezzata dalle lacrime: «Forse ci rivedremo in un mondo migliore.» Non riuscì a dire altro".
Il debito con il compositore fu saldato soltanto nel 1952 quando a Salisburgo Clemens Krauss ne diresse la prima esecuzione pubblica. Oramai normalizzata benché mai divenuta davvero popolare, la Danae torna in nuovo allestimento, dopo quello del 2002 firmato da Günter Krämer con la direzione di Fabio Luisi (in seguito ripreso alla Semperoper di Dresda) che interruppe l’assenza cinquantennale dell’opera dalla scena salisburghese. La nuova produzione, montata nel gigantesco palcoscenico del Großes Haus, è firmata dal lettone Alvis Hermanis, anche autore del lineare dispositivo scenico – una grande superficie ricoperta di piastrelle bianche con una scala a piramide al centro, che porta a una sorta di scena nella parte superiore – impreziosito dalle sofisticate luci di Gleb Filshtinsky e animato dalle proiezioni della videodesigner Ineta Sipunova ispirate a un orientalismo filtrato sotto la lente déco. Ma sono particolarmente gli spettacolari costumi disegnati dal designer e stilista lituano Juozas Statkevicius a dare linfa vitale alla visione di Hermanis: “La storia si svolge in una regione orientale. Nella nostra produzione vogliamo creare un’utopia fantastica. Voglio raccontare una favola dai colori sgargianti”.
E questo ha fatto Statkevicius dando libero sfogo a un oriente da favola, dove i personaggi vestono stoffe dai colori sgargianti e dagli immensi turbanti che ricordano quelli dei personaggi del memorabile “Entführung aus dem Serail” strehleriano. Ai creditori che lo tormentano, Re Polluce cede in pasto favolosi tappeti e preziosi abiti, Giove arriva a cavallo di un gigantesco elefante bianchissimo come un principe indiano. E Danae sogna creature dorate danzanti coreografie geometriche che fanno pensare ai Ballets Russes (le coreografie, un po’ invadenti, sono di Alla Sigalova) prima di conoscere l’amore per il mulattiere Mida e passare la vita a tessere tappeti, rifiutando anche le lusinghe di un Giove per la prima volta sconfitto.
È un susseguirsi di immagini sfolgoranti dal rosso dei tappeti della reggia in disarmo di Polluce, all’oro del sogno di Danae ma anche del suo divino corteggiatore, el bianco abbacinante della vita modesta che Danae sceglie per l’uomo che ama (bianco è anche il mulo). Dice ancora Hermanis: “Naturalmente non si può ignorare la data della composizione. Il lavoro è stato sviluppato sullo sfondo della seconda guerra mondiale. Forse c’era allora – come anche oggi – una fuga dalla realtà e dalla brutalità di quesi tempi”.
Certamente è una fuga dal teatro engagé e qualcuno storce il naso, ma lo spettacolone c’è e il pubblico festeggia. Festeggia anche e soprattutto la memorabile esecuzione musicale dei Wiener Philharmoniker guidati da Franz Welser-Möst con perizia fra le scintillanti volute straussiane, fuori dal tempo come può esserlo la sua favola mitologica in tempi di guerra. Un’esecuzione di grande forza espressiva che fa perdonare qualche debolezza nella compagnia di canto, in primo luogo del legnoso Midas di Gerhard Siegel, non all’altezza degli altri due protagonisti, Krassimira Stoyanova, Danae matura ma di fascino vocale intatto (però la nostalgia della sua Marescialla di due edizioni fa è altra cosa), e Tomasz Konieczny, Jupiter prestante e sfrontato. Particolarmente accattivanti le quattro sedotte e abbandonate di Jupiter: Semele (Maria Celeng), Europa (Olga Bezsmertna), Alkmene (Michaela Selinger) e soprattutto la nostalgica Leda (Jennifer Johnston).
Dall’evasione mitologica straussiana al salotto buono (si fa per dire) per l’agorafobica follia di The Exterminating Angel, la nuova opera in tre atti di Thomas Adès tratta molto fedelmente dall’omonimo, celebre film del 1962 di Luis Buñuel, che parte da un convivio a casa dei borghesissimi de Nobile dopo una soirée d’opera. Si cena, si passa al salone e proprio lì l’angelo sterminatore compie il suo disegno. I 19 personaggi (nell’opera sono ridotti a 15) non usciranno se non dopo una discesa agli inferi che produrrà morti, suicidi e una degradazione senza motivo apparente. “In un certo senso l’angelo sterminatore è un’assenza – un’assenza di volontà, di scopo, di azione” spiega Adès. A rivederlo oggi lo straordinario film di Luis Buñuel, più che una fantasia surrealista, sembra una metafora profetica del naufragio di un continente che si è rinchiuso nel proprio salotto buono succube delle proprie angosce che rifiuta di aprirsi al mondo. “Perché non vengono a salvarci?” chiedono questi naufraghi disperati, vittime della propria paralizzante angoscia, rovesciando la prospettiva fra vittima e salvatore (ma è mai possibile una salvezza?), che non perdono il bon ton nemmeno divorando il montone cotto alla buona sul rogo di un violoncello (c’è chi lo vuole “rose”, chi lo preferisce “à point”).
Il librettista Tom Cairns – anche regista di un allestimento semplice e rigoroso concepito per diverse scene – non si allontana troppo dalla sceneggiatura originale fatta salvo per la lingua inglese e la riduzione dei “reclusi” a tutto vantaggio di ritratti psicologicamente più pregnanti e corrosivi. L’altra vistosa differenza è nel finale: la storia non si ripete nella chiesa a messa finita con i fedeli che non riescono ad andare in pace come in Buñuel. Nell’opera i 15 naufraghi varcano la grande porta mentre suonano le campane e il coro intona i versi lugubri di un requiem (“Libera de morte aeterna, et lux aeterna luceat”). Incubo finito? Forse no, come sembra suggerire la circolarità della grande ciaccona che Adès riserva al finale della sua grande opera. E del resto l’opera con un frastuono di campane si apre.
Da un capolavoro (Buñuel) a un capolavoro (Adès)? Il sospetto c’è. Di certo Adès, dopo Powder Her Face e The Tempest, si conferma come uno dei pochi in grado di comporre per un grande pubblico senza rinunciare a un linguaggio musicalmente complesso e sofisticato. Se nel film di Buñuel la musica è assente, nonostante gli spunti musicali non manchino (gli strani convitati tornano da una soirée d’opera, fra loro ci sono una celebre cantante, una pianista e un direttore d’orchestra), Adès ne fa un punto di forza evitando la soluzione facile del soundtrack e scegliendo piuttosto di aggiungere complessità ai livelli di lettura possibili.
Ancora Adès: “Il film è molto musicale in un altro senso, perché c’è un fiume sotterraneo di significato che non corrisponde esattamente a ciò che dicono i personaggi. Questo fiume connette le battute e scorre attraverso l’intera vicenda e solo occasionalmente viene in superficie”. Seguire quel fiume per Adès è costruire una stratificazione musicale “in verticale” sulla linea narrativa buñueliana impiegando un linguaggio eteroclito, secondo la sua cifra più tipica, difficilmente incasellabile in una scuola. Orchestratore eccellente, Adès si muove su uno spettro vasto di colori e densità sonore efficacemente usate in chiave espressiva. Se gli archi dominano nei momenti più lirici (in particolare in quelli dei due giovani amanti Eduardo e Beatriz), sono soprattutto percussioni e fiati, in particolare gli ottoni, a dominare l’orchestra arricchita di pianoforte, chitarra e le spettrali onde Martenot.
Festeggiatissima anche dal pubblico poco avvezzo alla contemporanea (ma non del tutto digiuno) di Salisburgo, The Exterminating Angel era servita da interpreti d’eccezione, tutti perfetti, che coprivano tre generazioni di cantanti: dai veterani Thomas Allen (il direttore d’orchestra Alberto Roc), John Tomlinson (il medico Carlos Conde, fideisticamente attaccato alla razionalità scientifica) e Ann Sofie von Otter (Leonora Palma, la malata terminale), ormai sempre più comoda nei ruoli di caratterista di lusso, proseguendo con la coppia degli ospiti Amanda Echalaz e Charles Workman (Lucía e Edmundo de Nobile), Christine Rice (la pianista Blanca Delgado), Audrey Luna (la diva Leticia Maynar, come già per Ariel spinta ad altezze vocalmente siderali), Sally Matthews e Iestyn Davies (i fratelli Silvia e Francisco de Ávila, quest’utimo calzante “little queer” socialmente disadattato) per finire con Sophie Bevan e Ed Lyon (Beatriz e Eduardo, l’elegiaca coppia di giovani amanti suicidi).
In buca, alla testa della formidabile ORF Radio-Symphoniorchester di Vienna c’era proprio lui, Thomas Adès, che diceva di trovare sorprendentemente esilarante l’esperienza di dirigere la sua opera (ribattezzata dal compositore The Exhilarating Angel nella circostanza). In realtà c’è assai poco da ridere ma è difficile non venirne catturati. Questo Angelo non si ferma a Salisburgo ma continua il suo volo a Londra, Copenhagen e New York.
"Profondamente commosso e toccato nell’intimo, Strauss sentì in maniera quasi fisica la nostra divinità, l’arte […] Seguirono momenti di profondo silenzio dopo che le ultime note cessarono […] Strauss guardò oltre il parapetto della buca dell’orchestra, sollevò le mani con gesto di gratitudine e parlò all’orchestra con la voce spezzata dalle lacrime: «Forse ci rivedremo in un mondo migliore.» Non riuscì a dire altro".
Il debito con il compositore fu saldato soltanto nel 1952 quando a Salisburgo Clemens Krauss ne diresse la prima esecuzione pubblica. Oramai normalizzata benché mai divenuta davvero popolare, la Danae torna in nuovo allestimento, dopo quello del 2002 firmato da Günter Krämer con la direzione di Fabio Luisi (in seguito ripreso alla Semperoper di Dresda) che interruppe l’assenza cinquantennale dell’opera dalla scena salisburghese. La nuova produzione, montata nel gigantesco palcoscenico del Großes Haus, è firmata dal lettone Alvis Hermanis, anche autore del lineare dispositivo scenico – una grande superficie ricoperta di piastrelle bianche con una scala a piramide al centro, che porta a una sorta di scena nella parte superiore – impreziosito dalle sofisticate luci di Gleb Filshtinsky e animato dalle proiezioni della videodesigner Ineta Sipunova ispirate a un orientalismo filtrato sotto la lente déco. Ma sono particolarmente gli spettacolari costumi disegnati dal designer e stilista lituano Juozas Statkevicius a dare linfa vitale alla visione di Hermanis: “La storia si svolge in una regione orientale. Nella nostra produzione vogliamo creare un’utopia fantastica. Voglio raccontare una favola dai colori sgargianti”.
E questo ha fatto Statkevicius dando libero sfogo a un oriente da favola, dove i personaggi vestono stoffe dai colori sgargianti e dagli immensi turbanti che ricordano quelli dei personaggi del memorabile “Entführung aus dem Serail” strehleriano. Ai creditori che lo tormentano, Re Polluce cede in pasto favolosi tappeti e preziosi abiti, Giove arriva a cavallo di un gigantesco elefante bianchissimo come un principe indiano. E Danae sogna creature dorate danzanti coreografie geometriche che fanno pensare ai Ballets Russes (le coreografie, un po’ invadenti, sono di Alla Sigalova) prima di conoscere l’amore per il mulattiere Mida e passare la vita a tessere tappeti, rifiutando anche le lusinghe di un Giove per la prima volta sconfitto.
È un susseguirsi di immagini sfolgoranti dal rosso dei tappeti della reggia in disarmo di Polluce, all’oro del sogno di Danae ma anche del suo divino corteggiatore, el bianco abbacinante della vita modesta che Danae sceglie per l’uomo che ama (bianco è anche il mulo). Dice ancora Hermanis: “Naturalmente non si può ignorare la data della composizione. Il lavoro è stato sviluppato sullo sfondo della seconda guerra mondiale. Forse c’era allora – come anche oggi – una fuga dalla realtà e dalla brutalità di quesi tempi”.
Certamente è una fuga dal teatro engagé e qualcuno storce il naso, ma lo spettacolone c’è e il pubblico festeggia. Festeggia anche e soprattutto la memorabile esecuzione musicale dei Wiener Philharmoniker guidati da Franz Welser-Möst con perizia fra le scintillanti volute straussiane, fuori dal tempo come può esserlo la sua favola mitologica in tempi di guerra. Un’esecuzione di grande forza espressiva che fa perdonare qualche debolezza nella compagnia di canto, in primo luogo del legnoso Midas di Gerhard Siegel, non all’altezza degli altri due protagonisti, Krassimira Stoyanova, Danae matura ma di fascino vocale intatto (però la nostalgia della sua Marescialla di due edizioni fa è altra cosa), e Tomasz Konieczny, Jupiter prestante e sfrontato. Particolarmente accattivanti le quattro sedotte e abbandonate di Jupiter: Semele (Maria Celeng), Europa (Olga Bezsmertna), Alkmene (Michaela Selinger) e soprattutto la nostalgica Leda (Jennifer Johnston).
Dall’evasione mitologica straussiana al salotto buono (si fa per dire) per l’agorafobica follia di The Exterminating Angel, la nuova opera in tre atti di Thomas Adès tratta molto fedelmente dall’omonimo, celebre film del 1962 di Luis Buñuel, che parte da un convivio a casa dei borghesissimi de Nobile dopo una soirée d’opera. Si cena, si passa al salone e proprio lì l’angelo sterminatore compie il suo disegno. I 19 personaggi (nell’opera sono ridotti a 15) non usciranno se non dopo una discesa agli inferi che produrrà morti, suicidi e una degradazione senza motivo apparente. “In un certo senso l’angelo sterminatore è un’assenza – un’assenza di volontà, di scopo, di azione” spiega Adès. A rivederlo oggi lo straordinario film di Luis Buñuel, più che una fantasia surrealista, sembra una metafora profetica del naufragio di un continente che si è rinchiuso nel proprio salotto buono succube delle proprie angosce che rifiuta di aprirsi al mondo. “Perché non vengono a salvarci?” chiedono questi naufraghi disperati, vittime della propria paralizzante angoscia, rovesciando la prospettiva fra vittima e salvatore (ma è mai possibile una salvezza?), che non perdono il bon ton nemmeno divorando il montone cotto alla buona sul rogo di un violoncello (c’è chi lo vuole “rose”, chi lo preferisce “à point”).
Il librettista Tom Cairns – anche regista di un allestimento semplice e rigoroso concepito per diverse scene – non si allontana troppo dalla sceneggiatura originale fatta salvo per la lingua inglese e la riduzione dei “reclusi” a tutto vantaggio di ritratti psicologicamente più pregnanti e corrosivi. L’altra vistosa differenza è nel finale: la storia non si ripete nella chiesa a messa finita con i fedeli che non riescono ad andare in pace come in Buñuel. Nell’opera i 15 naufraghi varcano la grande porta mentre suonano le campane e il coro intona i versi lugubri di un requiem (“Libera de morte aeterna, et lux aeterna luceat”). Incubo finito? Forse no, come sembra suggerire la circolarità della grande ciaccona che Adès riserva al finale della sua grande opera. E del resto l’opera con un frastuono di campane si apre.
Da un capolavoro (Buñuel) a un capolavoro (Adès)? Il sospetto c’è. Di certo Adès, dopo Powder Her Face e The Tempest, si conferma come uno dei pochi in grado di comporre per un grande pubblico senza rinunciare a un linguaggio musicalmente complesso e sofisticato. Se nel film di Buñuel la musica è assente, nonostante gli spunti musicali non manchino (gli strani convitati tornano da una soirée d’opera, fra loro ci sono una celebre cantante, una pianista e un direttore d’orchestra), Adès ne fa un punto di forza evitando la soluzione facile del soundtrack e scegliendo piuttosto di aggiungere complessità ai livelli di lettura possibili.
Ancora Adès: “Il film è molto musicale in un altro senso, perché c’è un fiume sotterraneo di significato che non corrisponde esattamente a ciò che dicono i personaggi. Questo fiume connette le battute e scorre attraverso l’intera vicenda e solo occasionalmente viene in superficie”. Seguire quel fiume per Adès è costruire una stratificazione musicale “in verticale” sulla linea narrativa buñueliana impiegando un linguaggio eteroclito, secondo la sua cifra più tipica, difficilmente incasellabile in una scuola. Orchestratore eccellente, Adès si muove su uno spettro vasto di colori e densità sonore efficacemente usate in chiave espressiva. Se gli archi dominano nei momenti più lirici (in particolare in quelli dei due giovani amanti Eduardo e Beatriz), sono soprattutto percussioni e fiati, in particolare gli ottoni, a dominare l’orchestra arricchita di pianoforte, chitarra e le spettrali onde Martenot.
Festeggiatissima anche dal pubblico poco avvezzo alla contemporanea (ma non del tutto digiuno) di Salisburgo, The Exterminating Angel era servita da interpreti d’eccezione, tutti perfetti, che coprivano tre generazioni di cantanti: dai veterani Thomas Allen (il direttore d’orchestra Alberto Roc), John Tomlinson (il medico Carlos Conde, fideisticamente attaccato alla razionalità scientifica) e Ann Sofie von Otter (Leonora Palma, la malata terminale), ormai sempre più comoda nei ruoli di caratterista di lusso, proseguendo con la coppia degli ospiti Amanda Echalaz e Charles Workman (Lucía e Edmundo de Nobile), Christine Rice (la pianista Blanca Delgado), Audrey Luna (la diva Leticia Maynar, come già per Ariel spinta ad altezze vocalmente siderali), Sally Matthews e Iestyn Davies (i fratelli Silvia e Francisco de Ávila, quest’utimo calzante “little queer” socialmente disadattato) per finire con Sophie Bevan e Ed Lyon (Beatriz e Eduardo, l’elegiaca coppia di giovani amanti suicidi).
In buca, alla testa della formidabile ORF Radio-Symphoniorchester di Vienna c’era proprio lui, Thomas Adès, che diceva di trovare sorprendentemente esilarante l’esperienza di dirigere la sua opera (ribattezzata dal compositore The Exhilarating Angel nella circostanza). In realtà c’è assai poco da ridere ma è difficile non venirne catturati. Questo Angelo non si ferma a Salisburgo ma continua il suo volo a Londra, Copenhagen e New York.
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